Troppi suicidi. Ma sono troppi anche quando ce n’è uno solo. I suicidi non dovrebbero esistere. Perché se un uomo, uno solo, si toglie la vita, vuol dire che la società non ha saputo tenerlo con sé. Non gli ha parlato, non lo ha salvato, non aveva un collegamento con lui, lui si sentiva solo e da solo non ce l’ha fatta. Però è strano questo "sentirsi solo", perché noi, che scriviamo sui giornali, parliamo ogni giorno dei suicidi, contro il suicidio, in difesa di questi lavoratori e imprenditori che sono la parte migliore della società, la più sensibile, la più vulnerabile.
È una dura lezione per noi, scrittori e giornalisti, abituati a credere che le parole siano potenti, che l’uomo non abbia strumento più forte delle parole. Che basti "parlare" a uno che è in crisi, per aiutarlo. Ma è una lezione che la storia ci infligge spesso. Adesso mi svincolo dal tema dei suicidi, perché sull’impotenza delle parole mi sale di prepotenza alla memoria un episodio enorme. Non posso scacciarlo, e allora lo seguo. È la scena dei 22 bambini delle Fiandre, morti nello schianto del pullman in Svizzera. Erano morti, e le madri non lo sapevano. Bisognava informarle. Ma quali madri? Perché i bambini di quell’età, 12 anni, non hanno documenti, non si sa chi siano. Allora furono fatte venire per il riconoscimento. Era previsto che sarebbero piombate in crisi, e bisognava prepararsi all’aiuto. Ma quale aiuto? Qualcuno avrebbe parlato loro? E chi? Un poeta, uno scrittore, uno psicologo? O meglio una poetessa, una scrittrice, una psicologa? Un sacerdote? Qualcuno della Croce Rossa? E quali parole avrebbe usato, quali sono le parole che possono risollevare l’animo umano dalla crisi più profonda, la crisi in cui si desidera morire? Esistono, queste parole?
Ho seguito il lavoro delle squadre di conforto, chiamiamole così, che assistevano le madri in crisi, nella crisi più profonda che la condizione umana possa riservare. Ho cercato informazioni in Internet, leggevo le cronache dei giornali svizzeri. Mi rivolgevo a Google, chiedendogli: «Parole contro il lutto estremo», «parole contro la crisi», e formule simili. La risposta, sconcertante (per me: ma non è il mio campo), l’ho trovata su un giornale italiano che aveva un’inviata sul posto, che forse è entrata dove gli altri inviati non avevano messo piede. Questa inviata raccontava che le squadre di conforto avevano deciso che «non bisognava usare le parole». Avevano preparato dei locali di accoglienza, detti "stanze del silenzio". Non perché dentro ci fosse un totale silenzio, ma perché non si pronunciavano parole. Si sentivano soltanto musiche, tenui, dolcissime, perché si riteneva (sto interpretando) che le madri erano precipitate così in fondo, che le parole non ci arrivavano, ma forse la musica sì. Ho pensato a Davide. Quando il re Saul era travolto dalla crisi, di collera o di depressione, mandavano a chiamare Davide, che accorreva con la sua cetra: la cetra era l’unico mezzo per fare uscire il re dalla crisi.
Torniamo ai suicidi. Se le nostre parole, i nostri articoli, non servono, vuol dire che hanno bisogno di qualcos’altro. Ci chiediamo che cosa potrebbe aiutarli, conservarli tra noi, salvarli. Visto che le parole sono impotenti, che cosa è più potente delle parole? La cronaca risponde: due cose, la fede e l’amore. La fede e l’amore arrivano dove le parole non giungono. Quel lavoratore che aveva deciso di farla finita, e s’era appeso a un laccio, in casa, e fu raggiunto di corsa dalla figlioletta di 15 anni, che piangendo e gridando lo tenne sollevato per i piedi finché accorse gente, è stato salvato dall’amore. L’imprenditore che ieri ha pubblicato una lettera drammatica e altissima al Patriarca di Venezia, spiegandogli che il sentimento più doloroso che avverte chi è in crisi è l’«indifferenza degli altri» (l’esatto contrario dell’amore), cerca una guida nell’altra direzione, la fede. Le parole non hanno altrettanta forza.