La «grande sete» globale. Crisi e profughi la contesa sull'acqua presenta il conto
C’è un legame diretto fra crisi idriche e fenomeni migratori di massa? E fra mancanza d’acqua e conflitti? Man mano che, in presenza di un mutato regime idrologico planetario, comunità umane già svantaggiate pagano il prezzo più alto di modelli economici insostenibili, la comunità scientifica avverte tutta l’urgenza di approfondire l’analisi. Meno preoccupati si direbbero invece i governi: al momento sono davvero pochi quelli che si stanno muovendo per adottare strategie adeguate a contrastare future criticità. L’assenza di acqua è classificata dalla Fao secondo tre tipologie: la scarsità strettamente fisica di acqua superficiale, in correlazione con un mutato ciclo idrico (piogge ed evaporazione), e anche penuria di acqua di falda, utilizzata oltre la naturale 'ricarica'; la scarsità economica, là dove non c’è la capacità finanziaria di rendere accessibile l’acqua per i propri cittadini anche se essa fisicamente c’è; la scarsità istituzionale, quando a mancare sono leggi, capacità tecniche e organizzative delle istituzioni, non risorse idriche.
Spiega Cristina Cattaneo, ricercatrice presso la Fondazione Eni Enrico Mattei: «Il cambiamento climatico è certo un incentivo a emigrare, ma la migrazione è sempre una scelta multicasuale, generata da svariate motivazioni – sociali, politiche, personali, culturali... – e non da una sola». Se si prende il caso di inondazioni, uragani, piogge torrenziali (sempre di crisi idriche si tratta) «c’è da dire che raramente esse provocano migrazioni di tipo permanente. Piuttosto si verificano spostamenti brevi, in termini spaziali e temporali», argomenta l’economista. In presenza di importanti siccità, invece, «si possono verificare esodi importanti» e duraturi. Oppure può avvenire l’esatto contrario: essendo la migrazione un’opzione 'costosa', non praticabile da tutti, le persone colpite, impoveritesi ulteriormente, talvolta rimangono 'intrappolate' in un luogo. E a creare tensioni conflittuali è allora la mancata migrazione, «tradizionale strategia di adattamento al cambiamento climatico».
L’esperta non rileva tuttavia una connessione diretta fra la siccità verificatasi nel Nord della Siria negli anni 2006-2010 e il conflitto civile esploso nella primavera del 2011: «Una migrazione interna da settentrione verso Sud, come verificatasi in quel periodo, non ha rappresentato una novità nella storia del Paese. Non ci sono evidenze scientifiche che essa abbia creato instabilità politica». Di altro parere Giorgio Cancelliere, dell’Università Milano-Bicocca, che ha recentemente realizzato una ricerca sul rapporto acqua-migrazioni insieme a Gvc Onlus: «A causa della siccità, un milione e mezzo di siriani su 22 milioni ha perso i mezzi di sussistenza ed è stato sradicato dalle proprie terre; l’85% del bestiame è morto, sono scomparse le colture di grano. Gli agricoltori sono fuggiti in massa nelle città, in particolare a Damasco e a Daara, con problemi di occupazione e scarsità di acqua. Le città che ospitavano 8,9 milioni di persone nel 2002 sono passate a 13,8 milioni nel 2010».
Ed è in quel contesto altamente esplosivo generato dalla crisi ambientale, secondo questa interpretazione, che la rivolta politica avrebbe trovato terreno fertile, rafforzata poi da interventi esterni. Non c’è dubbio che un conflitto di tale importanza abbia innescato nuovi stress idrici e vulnerabilità climatiche, e quindi nuovo slancio alle migrazioni. Ad Aleppo, per esempio, è l’intero sistema fognario e di distribuzione dell’acqua al pubblico a dover essere riparato, mentre risultano danneggiate dagli jihadisti del Daesh – e quindi pericolose per la popolazione – alcune dighe su Tigri ed Eufrate, in Siria e Iraq. Il rischio di disastro ambientale è anche in questo caso dietro l’angolo, nell’eventualità di piogge torrenziali.
Nell’Asia centrale, intanto, è la troppa acqua all’origine di intensi fenomeni migratori. O, più propriamente, l’inadeguatezza dell’uomo nel gestire situazioni esplosive da lui stesso provocate. Nel bene e nel male, dipendono dai fiumi che scendono dall’Himalaya e dalla regolazione delle dighe su Indo e Brahmaputra il Nepal, la Cina, il Bangladesh e l’India. Gli sfollati per le alluvioni negli Stati indiani di Tamil Nadu e Andhra Pradesh ammontano a un milione e 800mila. Ma c’è un’altra emergenza idrica asiatica, meno conosciuta: il 60% delle falde dell’Asia meridionale risulterebbe inquinato da arsenico, con la conseguenza che la salute di 750 milioni di persone tra Pakistan, India, Nepal e Bangladesh è a rischio. Poi c’è la regimazione delle risorse idriche che danneggia le altre popolazioni e crea tensioni politiche potenzialmente foriere di conflitti.
Le dighe e gli sbarramenti sul Mekong in Indocina e sull’Irrawaddy in Myanmar hanno costretto milioni di contadini e pescatori a migrazioni interne del tutto irreversibili. Quanto alla diga della Grande rinascita etiope sul Nilo Azzurro, essa bloccherà un volume pari a una volta e mezzo il flusso annuo del Nilo scacciando popolazioni indigene a ridosso dell’infrastruttura e, insieme, minacciando la sopravvivenza di milioni di persone che vivono negli Stati a valle, partecipi del bacino idrografico del Nilo (Egitto e Sudan).
La prospettiva di vedere drasticamente ridotte le risorse idriche sta creando frizioni fra Il Cairo e Addis Abeba, e quest’ultima e Asmara. Con Khartoum si cerca una cooperazione economica che coinvolga il Sudan nel progetto idroelettrico etiope, ma i negoziati sono lenti e faticosi. Per l’Etiopia la questionedighe non rappresenta una novità: i precedenti invasi Ghible II e III hanno coinvolto le popolazioni indigene dell’Etiopia e del Lago Turkana che praticavano coltura di recesso, pesca e pastorizia, per fare spazio a piantagioni industriali di canna da zucchero. E sempre azioni dell’uomo che hanno cambiato l’ambiente stanno costringendo migliaia di contadini kazaki a cercare nuove aree coltivabili alla luce delle trasformazioni che stanno interessando il fiume Amu Darya. S e è vero tuttavia che la migrazione, volontaria o forzata, si rivela spesso una scelta vantaggiosa – per esempio sulla qualità della vita di chi rimane e riceve le rimesse –, è altrettanto vero che le aree geografiche 'riceventi' sono spesso messe a dura prova: Bangkok, metropoli thailandese «tra le città più a rischio di alluvioni, scarsità di acqua e intrusione salina», come illustra Margherita Romanelli, di Gvc onlus, è un bacino di elezione non solo per i migranti nazionali ma anche, fra gli altri, per quelli cambogiani, in fuga dalla siccità. Il loro arrivo aggrava problematiche già esistenti.
La matassa, dunque, è davvero aggrovigliata. Per Riccardo Petrella, già promotore del contratto mondiale dell’acqua, si tratta in primis di lanciare segnali forti di assunzione di responsabilità: «Abbiamo provato, in occasione di Expo 2015, a promuovere la nascita di un’Agenzia internazionale per l’acqua, ma non c’è stato verso. Eppure alle Nazioni Unite c’è un’agenzia per tutto: perché allora non un’altra che vigili sull’uso corretto delle risorse idriche, sull’accesso equo per tutti?». Ora la cornice del G7 Ambiente (10-12 giugno a Bologna) potrebbe creare le condizioni per un rilancio della proposta, foriera di un approccio olistico alle strategie di gestione delle crisi idriche e delle emergenze umanitarie da esse provocate, o aggravate. Un approccio che metta insieme scienza e politiche lungimiranti. Prima che sia troppo tardi.