È l’ennesimo paradosso di questa strana stagione politica. Mai una riforma del lavoro aveva raccolto un consenso così plebiscitario in Parlamento, con il voto favorevole dei quattro quinti dei deputati. Eppure mai una riforma è stata disconosciuta tanto in fretta dalla stessa ampia maggioranza che si apprestava a vararla. Una riforma sulla quale il governo è stato costretto a chiedere la fiducia, impegnandosi a un «tempestivo cambiamento».
Eppure, conviene ricordarlo, il testo-base della riforma del lavoro aveva raccolto i consensi della quasi totalità delle parti sociali, ad esclusione della Cgil. E nei vertici ABC – quando ancora Alfano, Bersani e Casini si davano appuntamento con Monti tutti insieme e sorridevano nelle foto su twitter – i leader avevano lavorato a lungo sui punti-chiave, trovando un buon compromesso. E infine, in Senato, il provvedimento era stato emendato, corretto e completato in molte parti.
Dialogo sociale, confronto politico e lavoro parlamentare, dunque. Nulla è mancato.
Perché allora oggi la riforma non sembra avere più né madri, né padri e nemmeno zii? Il Pdl è deluso e parla di effetti negativi sull’occupazione; il Pd non nasconde le difficoltà e qualche esponente parla già di una «controriforma» nel caso di vittoria alle elezioni. L’Idv, neanche a dirlo, propone l’abolizione con l’ennesimo referendum.
Per la Confindustria è una «bojata», per la Cisl «ha tradito le attese iniziali». La Cgil, ovviamente, sta in piazza. Nemmeno i giovani precari, che avrebbero dovuto essere i maggiori beneficiari del provvedimento, applaudono. Anzi, contestano un giorno sì e l’altro pure.
Insomma, una riforma 'figlia di nessuno' e che nessuno oggi vorrebbe implementare senza prima cambiarla. Una riforma che sembra essere stata varata solo per dimostrare all’Europa di aver fatto i «compiti a casa», di aver ottemperato alle richieste di Commissione e Bce della scorsa estate.
La riforma sconta in effetti non pochi difetti. Rompe il tabù dei licenziamenti senza giusta causa, ma poi finisce per inserire lavoratori e imprese in un labirinto di possibili decisioni del giudice, generando nuova incertezza per tutti. Allarga le tutele degli ammortizzatori sociali, senza però renderle realmente universali ed efficienti.
Individua alcuni parametri per limitare precarietà e abusi, ma rischia di burocratizzare troppo, scoraggiando il lavoro flessibile genuino. Soprattutto, non rafforza le politiche attive per chi resta senza lavoro e non ha il coraggio di puntare con decisione a strumenti come il ricollocamento professionale. È il risultato, con ogni probabilità, del Dna stesso della riforma: non concepita con un disegno politico chiaro e coerente, ma in una serie di compromessi e aggiustamenti successivi, bilanciando tra visioni differenti.
Eppure – ed è l’ennesimo paradosso – proprio il carattere non-ideologico di questo provvedimento può rappresentare la sua forza. Il disegno di legge Fornero è allo stesso tempo un avvio promettente e un’occasione mancata. Ora va applicato, sperimentato e monitorato senza pregiudizi. Giudicato senza acrimonia.
Corretto senza risentimenti. Per alcuni istituti basterà qualche mese per comprendere se funzionano o no, per altri sarà necessario un periodo più lungo. Ma alla fine la vera svolta di questa riforma potrebbe essere quella di guardare al mercato del lavoro con meno furori rivoluzionari e maggiore pragmatismo, senza guerre di religione ma cercando di volta in volta le correzioni tecniche più utili. E farlo insieme, guardando con responsabilità alle esigenze dei giovani, per le nostre forze politiche sarebbe un paradosso mai visto.