L'Egitto e l’Italia: sono due gli obiettivi della bomba che ha devastato il Consolato italiano del Cairo. L’Egitto del generale-presidente al-Sisi è ormai al centro di una lunga campagna di attentati terroristici e di autentiche azioni di guerriglia. Gli ultimi e più spettacolari in ordine di tempo sono stati l’autobomba contro il procuratore generale Ishman Marakat, che aveva chiesto (e ottenuto) la condanna a morte del deposto presidente Morsi, e l’attacco in massa contro le posizioni della polizia e dell’esercito in Sinai, costato la vita a decine di militari. Il regime di Morsi è particolarmente inviso agli estremisti di al-Qaeda e di Daesh (l’Is ha infatti apertamente rivendicato l’attentato di ieri) per aver posto fine con la forza all’esperimento (peraltro estremamente discutibile nelle realizzazioni e nelle modalità) del regime instaurato dai Fratelli musulmani dopo il crollo di Mubarak. Alcuni mesi fa, si ricorderà, le Forze aeree egiziane avevano inoltre condotto duri bombardamenti contro le posizioni dell’autoproclamato Califfato in Libia, a seguito della barbara e spettacolare esecuzione di un gruppo di lavoratori egiziani di religione copta ad opera dei tagliagole dell’Is. Da questo punto di vista, dunque, l’attentato di ieri si inscrive in una lunga sequenza probabilmente destinata a non esaurirsi troppo rapidamente.Ciò che costituisce una novità è il bersaglio italiano, a conferma che non è sostenibile che il nostro Paese non sia nel mirino dei terroristi. Com’è del tutto evidente, l’Italia è molto esposta nel Mediterraneo, già solo per la sua collocazione geografica. Il suo stesso essere meta delle ondate di migranti e profughi che arrivano numerosi sulle coste l’ha resa, per così dire, “popolare” o se preferite “interessante” anche per chi in passato se ne curava meno o non ne considerava più di tanto l’esistenza.Nell’azione di contrasto al terrorismo e ai movimenti radicali di ispirazione islamista e all’estensione del loro raggio di azione, come per la stabilizzazione del Mediterraneo allargato, l’Italia gioca inoltre da tempo un ruolo importante. Il nostro Paese è tra quelli che più premono per un intervento politico e di sicurezza in Libia. Siamo presenti fin dall’atto della sua costituzione e ne deteniamo il comando per la seconda volta in Unifil 2, il contingente multinazionale che sorveglia l’applicazione della Risoluzione 1.701 che stabilì il cessate il fuoco tra Israele e Libano nell’estate 2006; addestriamo a Gibuti le forze di sicurezza somale che lottano contro al-Shabaab; e, infine, continuiamo a fornire assistenza alle truppe afghane contro i taleban. Abbiamo cioè deciso di prendere parte alla lotta contro la minaccia più grave e continuativa alla pace del XXI secolo – il terrorismo fondamentalista – ed è scontato che chi la alimenta ci abbia messo nel mirino.Del resto, dovremmo ricordare che il 3 agosto 2014, in una delle sue prime visite all’estero, il premier Matteo Renzi si recò in visita nell’Egitto di al-Sisi (che aveva assunto la carica presidenziale l’8 giugno), a testimonianza del sostegno che l’Italia intendeva assicurare al nuovo corso egiziano, proprio alla luce della comune lotta contro il radicalismo violento e il terrorismo di matrice islamista. Dobbiamo perciò essere consapevoli che sarebbe illusorio e pericoloso pensare di potersi “mettere al riparo” dalle attenzioni del sedicente califfo al-Bagdhadi. Non basterebbe nemmeno assumere un atteggiamento più defilato e meno responsabile. Sembra, infatti, che soltanto l’azione dei servizi di intelligence e delle forze di sicurezza abbia consentito finora di poter minimizzare il rischio di attentati anche sul territorio nazionale. Per questo è necessario tenere alta la guardia, senza farsi intimidire, come ha ribadito ieri il nostro governo.