Il fisco e la comunità. Si scrive «tasse» ma vuol dire senso civico e amore cristiano
Caro direttore,
la parola “tasse”, questa serie di cinque lettere, riassume in sé qualcosa che evoca una lunga storia che si intreccia con il legame tra rappresentanza democratica e lealtà fiscale. Perché il modo migliore per far pagare le tasse ai cittadini, per chieder loro di contribuire – e, quindi, per farli diventare contribuenti – non è quello della semplice imposizione, ma occorre convincerli, attraverso un dialogo necessario e continuo. Occorre farli sentire rappresentati e renderli consapevoli di come vengano utilizzati i soldi delle loro tasse. È necessario perché ogni sistema di rappresentanza, nella storia, ha sempre avuto delle cause e delle conseguenze anche sul piano tributario. È stato così sin dal Medioevo, quando i gruppi che avevano la possibilità di farsi sentire, imposero limiti e condizioni ai sovrani che volevano prelevare tasse: così hanno fatto i nobili in Inghilterra, con la Magna Charta; così hanno fatto i nostri Comuni con gli imperatori che scendevano d’Oltralpe. E, via via, così è stato in tutti i Paesi dove si sono organizzate le prime forme di rappresentanza di nobili, clero, cittadini, motivate principalmente dal controllare il potere di re e imperatori di prelevare e spendere i soldi di quelli che allora si chiamavano i sudditi. Ed è così, a maggior ragione, ancora oggi nelle moderne democrazie dove non esistono più sudditi, ma cittadini.
Questo legame fra tasse e rappresentanza salì in primo piano in America, quando i coloni della Virginia si ribellarono alle tasse imposte dalla corona inglese in nome di un principio semplice e disarmante: « no taxation without representation ». Non volevano pagare le tasse imposte da rappresentanti che non avevano eletto. Ed è stato così anche nella storia recente del nostro Paese, dove moltissimi cittadini hanno continuato a essere comunque onesti verso lo Stato, pur non sentendosi rappresentati; ma molti altri hanno disertato tanto le urne quanto i loro obblighi fiscali. Non si sono sentiti in dovere di essere fiscalmente leali verso lo Stato e si sono sentiti legittimati a non contribuire a un bene che non hanno più percepito comune. L’astensionismo e l’evasione fiscale sono, in maniera diversa, entrambi espressione del nostro senso di appartenenza a una comunità, del nostro sentirci parte dello Stato, di quello Stato di cui siamo direttamente responsabili con i nostri comportamenti di ogni giorno, tasse comprese, e con il voto e il volto che diamo alle persone che devono rappresentarci.
Nel nostro Paese, invece, succede spesso che in tanti paghiamo le tasse, ma lo facciamo come se ci venissero imposte da un’entità estranea e astratta chiamata Stato. E le paghiamo sempre alzando gli occhi al cielo, quasi imprecando. Come osservava Piero Gobetti un secolo fa, «in Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale [...]. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta». Lo Stato, invece, siamo noi, con le nostre piccole e grandi scelte di ogni giorno. E siamo Stato, e lo Stato è, anche grazie alle tasse che paghiamo. Del resto, il termine più esatto per indicare le tasse sarebbe “tributo”, che viene dal termine tribù, tra le quali, nell’antica Roma, venivano suddivisi i cittadini e, quindi, ripartito il peso delle spese da sostenere in comune; la quota della colletta a cui partecipavano tutti i cittadini di Roma. Oggi, invece, con argomentazioni autoassolutorie, troppo spesso pensiamo di poter sottrarci a quell’obbligo, ritenendo che gli evasori siano gli altri, e mai noi. La verità, invece, è che il problema è più complesso. E che, a volte, lo complichiamo noi stessi, tutti insieme, con alcuni nostri comportamenti. Quando, per esempio, convinti di adottare un comportamento immediatamente conveniente per noi, evitiamo di pagare le tasse, finendo per contribuire così anche noi allo smantellamento dello stato sociale (che vuol dire le pensioni, la sanità pubblica, la scuola, l’assistenza…) che pure noi stessi siamo riusciti a costruire e difendere per oltre settant’anni di vita repubblicana.
Per i cristiani tutti, inoltre, il dovere civico di pagare le tasse assume una forza e un valore ulteriori per l’invito di Gesù di rendere «a Cesare quel che di Cesare» (Matteo, 22, 21) e, quindi, a riconoscere il diritto dello Stato di riscuotere i tributi. Un riconoscimento che venne espresso in un momento storico in cui i tributi non erano principalmente destinati al bene comune e alla costruzione di quello che oggi chiamiamo, appunto, lo stato sociale, ma servivano a mantenere le corti dei sovrani e i loro eserciti per conquistare il mondo. Un riconoscimento che avvenne nonostante lo stesso Gesù avesse provato compassione verso un uomo – Matteo – che era considerato un traditore perché riscuoteva le imposte dal popolo di Israele per consegnarle ai Romani invasori; un uomo che poi scelse tra i suoi dodici Apostoli (« Miserando atque eligendo »). Ma, allora, cosa ci direbbe il Nazareno oggi? Cosa penserebbe delle tasse, che – se bene utilizzate dallo Stato – non sono destinate alla conquista del mondo, ma alla costruzione del bene comune, per garantire spese sanitarie, assistenza, istruzione? Userebbe ancora quelle stesse parole o si spingerebbe oltre, sottolineando che nel mondo odierno le tasse sono uno dei modi possibili per amare il nostro prossimo, per non voltargli le spalle, per mettersi nei suoi panni? Che rinunciare a una parte dei propri guadagni per farsi carico di chi è rimasto indietro può essere una manifestazione d’amore? E che far sì che la trasparenza, l’efficienza, l’umanità di questo sistema è affar nostro e non di qualcun altro. Le tasse rappresentano il modo più semplice per trovare le risorse necessarie per consentirci di vivere insieme. Tutto quello che viviamo come membri di una stessa comunità, infatti, è reso possibile dalle risorse che mettiamo a disposizione per realizzarlo.
Ecco, le tasse sono una sola parola, che riassume tutte le parole che riguardano il nostro stare insieme. Sono il prezzo che paghiamo per essere una comunità. Il prezzo delle nostre strade, delle nostre scuole, dei nostri ospedali, dei mezzi di trasporto pubblico con i quali ci muoviamo; il prezzo degli stipendi dei nostri medici, degli insegnanti, di chi chiamiamo in nostro aiuto quando ci sentiamo in pericolo, dopo un terremoto o un’alluvione; il prezzo di chi garantisce l’ordine pubblico o ci giudica dinanzi ai tribunali; la retribuzione dei nostri amministratori, e dei politici che abbiamo scelto per guidarli. E sono anche il prezzo necessario per non lasciare indietro gli ultimi, i più poveri, i più piccoli, i più indifesi. Le tasse – belle o brutte che siano – rappresentano solo quel prezzo. Quando non lo paghiamo, stiamo lasciando che un altro paghi per noi. Magari corrompendo. E, allo stesso tempo, ci sentiamo comunque legittimati a continuare a usufruire delle strade, dell’illuminazione pubblica, delle biblioteche, degli ospedali, delle scuole, delle forze dell’ordine e della protezione civile, dei mezzi di trasporto e di tutto quello che lo Stato riesce a far funzionare proprio grazie alle tasse pagate dagli altri.
Ma i conti così non tornano. Né quelli economici, né quelli etici, né alla fin fine quelli personali. Senza lo Stato saremmo tutti più poveri, più deboli, più indifesi. Per poter assolvere ai suoi compiti, infatti, lo Stato deve chiederci di pagare le tasse. E noi non dovremmo dimenticare mai che questo è un dovere civico. Un dovere che ci viene rammentato anche dalla Dottrina sociale della Chiesa. Una prima rilettura del dovere di lealtà fiscale, nella storia recente della storia della Chiesa, è stata compiuta con il Concilio Vaticano II, che ha esortato i cittadini a non trascurare «il dovere di apportare alla cosa pubblica le prestazioni, materiali e personali, richiesta dal bene comune » ( Gaudium et spes, 75), puntando il dito verso tutti quelli che «non si vergognano di evadere con vari sotterfugi e frodi alle giuste imposte e agli altri obblighi sociali» (Gs, 30).
Una prima rilettura del dovere di lealtà fiscale, nella storia recente della Chiesa, è stata compiuta con il Concilio Vaticano II
Poi, con il Catechismo della Chiesa cattolica, ci è stato ricordato che: «La corresponsabilità nel bene comune comporta l’esigenza morale del versamento delle imposte » (n. 2240). Ed è stato san Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, a rivendicare che «la Chiesa non rinuncia a stigmatizzare la pratica dell’evasione fiscale». In tempi più recenti, infine, è arrivata una risposta ancora più chiara con le parole di papa Francesco, che ci ha ricordato come al mondo d’oggi ci siano ormai molti «modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso» (“ Economia di comunione”, 4 febbraio 2017). I l dovere di pagare le tasse ha un valore prettamente civico che grava su tutti gli appartenenti a una comunità, che grava su tutti i cittadini. Ma per i cristiani tutti dovrebbe assumere un valore ancor più profondo, che non può essere liquidato con troppa facilità.
Direttore dell’Agenzia delle Entrate