Rai. «Servizio pubblico» perché capace del meglio
Paola Severini Melograni (Ansa)
Caro direttore, il 26 ottobre di 73 anni fa nasceva la radiotv pubblica. Oggi l’imposizione del canone nella bolletta della luce ci pone di fronte a una serie di interrogativi che chiedono risposte non più procrastinabili. Perché il patto tra l’azienda e la gente è fondativo del “servizio pubblico”, che trasformò la voce dell’Eiar da megafono del regime fascista a tv del Paese, la Rai. Oggi, è indispensabile per l’azienda ritrovare le proprie radici e ripensare la propria missione. Se si chiede ai novissimi vertici nessuno di loro potrebbe o vorrebbe rispondere di “no” che le radici non servono e che la missione, ossia il servizio pubblico, non vada riproposta come essenziale, magari ripensandola attraverso nuovi linguaggi. Possiamo individuare nell’idolatria degli indici d’ascolto uno dei problemi, ricordando quante siano le magnifiche professionalità interne a volte spesso non utilizzate.
Chi, come me, ha avuto la fortuna di lavorare e di imparare da giganti dell’informazione come Antonio Ghirelli e Sergio Zavoli non può che confermare che in Rai si sono formate competenze e professionalità spesso non utilizzate (peggio quindi che non valorizzate...) oppure che se ne sono andate per altre strade. Credo però che la qualità e, soprattutto, la funzione formativa di uno strumento ancora così influente, si possano coniugare con lo share e i buoni prodotti, e quello che è successo nei giorni scorsi, con il “caso Perego”, rappresenta non un incidente ma una visione senza dubbio errata del mezzo, del racconto, della conduzione. I telespettatori infatti, oggi sono un po’ diversi (e si dividono in tanti target che prendono dalla tv pubblica quello che vogliono e come vogliono), ma sono molto più accorti, esigenti e intelligenti di molti tra coloro che confezionano i programmi.
Non si spiegherebbe altrimenti il successo delle buone fiction e gli insuccessi dei cattivi programmi di intrattenimento, o il plauso generale a certe scelte, vedi i “Ladri di Carrozzelle” a Sanremo (evento sostenuto fortemente da “Avvenire”, e te ne sono grata) o la presenza di personalità provenienti dal mondo della solidarietà che “tirano su” programmi – brutti e raffazzonati – costati enormità. Se potessimo fare un salto all’indietro di 50 anni, e andassimo a leggere l’elenco dei programmi televisivi del 1966, li scopriremmo divisi in questo modo:1) programmi ricreativi, culturali e scolastici; 2) programmi informativi; 3) programmi locali. Entriamo anche solo nella prima voce. Musica sinfonica e da camera, lirica, balletto, programmi vari dall’estero e dagli studi, dove tutti, ma proprio tutti i “titoli” sono il massimo che non solo l’Italia ma il mondo allora poteva esprimere: filmati, opere liriche, viaggi attraverso la musica, da “Specchio Sonoro” (profili di grandi compositori) a “Invito al Valzer” a cura di Roman Vlad; e poi teatro classico, straniero, drammatico, e ancora moltissime produzioni dagli studi, cito per tutti, Ugo Betti “Corruzione a Palazzo di Giustizia” e “La Nemica” di Niccodemi.
Ci si potrebbe perdere nell’enorme mole di un’autoproduzione che basterebbe a colmare qualsiasi palinsesto... Ma come dimenticare le riduzioni di opere letterarie, e qui cito soltanto Bacchelli e “Il Mulino del Po”, e poi i film, ben 133, divisi in rassegne e grandi interpreti, tutti analizzati e scelti con chiara l’idea di ciò che il cinema poteva fare per un’Italia “in ripresa”. Ma la parte più affascinante riguarda quelli che il redattore dell’Annuario Rai 1967 (compendio scritto l’anno seguente) definisce «programmi leggeri» (rivista e varietà, operette e commedie musicali, canzoni) e che leggeri non sono per nulla. Tra questi, quasi tutti autoprodotti, “Il Giornalino di Gianburrasca” di Wertmuller e “Scaramouche” di Corbucci e Grimaldi. I programmi culturali arrivano poi, e qui l’evidenza di selezionare il meglio appare prepotente e chiarissima: “L’Approdo” diretto da Attilio Bertolucci, “Zoom”, a cura di Andrea Barbato, “La fede e gli uomini”, a cura di Raniero La Valle e Giuseppe Alberigo, e inchieste e documentari di Leandro Castellani, Folco Quilici, Ludovico Alessandrini; senza parlare dei “Programmi per i ragazzi”.
Mi fermo perché, in realtà, qualunque nome di autore io legga è sempre al massimo livello intellettuale, secondo un metro senza tempo, valido ieri e oggi. È questo il più grande dei problemi attuali: una tv di Stato che non ha come obiettivo quello di dare il meglio, ma è condizionata, in gran parte, da alcune – chiamiamole così – “tribù”, gestite da “capitribù” potentissimi, che sono gli agenti e le società che sfornano i cosiddetti format, tutti uguali e tutti tendenti al basso e mai all’alto, e che rincorrono sistematicamente la pancia di chi guarda e non il cervello. Anch’io, caro direttore, penso che se in Rai si tentasse di ricominciare dalla selezione delle intelligenze, e ce ne sono tantissime pronte a dare il loro contributo, pensando poi, di conseguenza, al linguaggio e alla confezione dei programmi, il canone che viviamo come un balzello avrebbe finalmente una ragion d’essere.