Il pressing degli Usa su Netanyahu. Serve la voce dell'Ue per la tregua
La violenza, l’odio, la guerra si riproducono e si propagano attraverso l’automatismo che segue l’antica ma purtroppo sempre attualissima “legge del taglione”: “occhio per occhio dente per dente”, tu mi colpisci e io ti colpisco, è la ben nota sequenza che, scavando un fossato sempre più profondo, radicalizza il conflitto in una escalation di violenza e risentimento. Facciamo un passo indietro. Come tutti gli atti terroristici, l’efferato attacco di Hamas del 7 ottobre aveva uno scopo preciso: indurre Israele a una reazione ancora più violenta, facendolo così passare dalla parte del torto. E per questa via, arrivare a suscitare, nel mondo arabo – ma più in generale nell’ampio fronte internazionale insofferente verso l’Occidente – una più forte convergenza politica, se non addirittura militare, a difesa del popolo palestinese. L’uso della violenza da parte dei terroristi ha sempre l’obiettivo (sbagliato) di aggregare il consenso latente attorno alla propria causa, mescolando i piani della vittima e del carnefice. Purtroppo, le vicende di questi mesi hanno seguito esattamente questo copione. Israele ha reagito con durezza alla efferata provocazione di Hamas, moltiplicando il numero delle vittime, tra cui moltissimi civili. Donne e bambini compresi. E ora, con l’annunciato attacco di Rafah, la situazione è destinata ad aggravarsi ancora di più. Col rischio di un pericoloso (e dannoso) isolamento internazionale dello stesso Stato ebraico. Di fatto, come molti osservatori stanno dicendo da tempo, il già precario rapporto tra Israele e i Paesi vicini risulta oggi ancor più pregiudicato. L’odio seminato negli ultimi mesi rischia di produrre effetti nefasti per generazioni.
Al punto in cui siamo, è oggettivamente molto difficile immaginare una via d’uscita pacifica. E tuttavia, non bisogna arrendersi alla spirale della guerra. Anche perché, ci sono molte ragioni per cui gli alleati occidentali d’Israele non possono permettersi questa deriva. Nell’ordine mondiale sorto dopo la Seconda guerra mondiale, l’Occidente ha sempre rivendicato due principi fondamenta-li: il rispetto dell’integrità territoriale di ogni singolo Paese e la salvaguardia del diritto umanitario che distingue gli eserciti dalla popolazione civile. Due principi ripetutamente richiamati a proposito dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. Al di là del piano degli interessi economici e strategici, negli ultimi 70 anni l’Occidente ha sempre giocato, sia verso l’opinione pubblica interna sia verso il resto del mondo, la carta di una giustificazione etica e giuridica delle proprie posizioni. Sconfessare esplicitamente questi presupposti – a dire il vero già traballanti, perché purtroppo traditi in alcune delle crisi degli ultimi decenni – avrebbe conseguenze incalcolabili. Per quanto comprensibili, le reazioni dell’esercito israeliano mettono in discussione questi due principi fondamentali. Ed è per questa ragione che l’Occidente non può seguire Israele sulla strada intrapresa dopo il 7 ottobre. In queste settimane l’amministrazione Biden ha ripetutamente cercato di frenare il governo Netanyahu. Ottenendo scarsi risultati.
Purtroppo, ancora una volta, l’Europa non è stata capace di far sentire la propria voce. Eppure, è quanto mai necessario che la Ue si schieri, adesso, con chiarezza sulla posizione di Biden. Invitando Israele a fermare le proprie azioni, a percorrere la strada della tregua e a incamminarsi concretamente verso l’unica soluzione ragionevole, che è poi quella dei due Stati. In una recente intervista il miliardario Elon Musk ha usato un’espressione efficace. Facendo un confronto tra la fine della Prima guerra mondiale (con l’umiliazione della Germania e gli effetti poi che si sono prodotti negli anni Venti e Trenta) e il post-1945 (quando gli Stati Uniti ebbero l’intelligenza politica di aiutare Germania, Italia e Giappone a ricostruirsi, mettendo tra parentesi i sentimenti di vendetta), il miliardario americano ha parlato dell’importanza che una «cospicua azione di generosità » nell’interruzione degli automatismi della violenza. È proprio così: per vincere – e vincere davvero, generando le basi di una pace duratura – non serve farsi accecare dalla logica della vendetta. Servono piuttosto “cospicui atti di generosità”. Il che significa dare spazio ad iniziative coraggiose e lungimiranti: l’intelligenza politica sa che la forza militare da sola non è in grado di risolvere i conflitti.