Il direttore risponde. Senza strepiti, ma senza ombre
don Matteo Panzeri, Milano
Caro don Matteo, ero fuori sede e riesco solo oggi a pubblicare la sua lettera. Della quale la ringrazio sia per i contenuti che per il tono. Credo che la «ponderazione» di quelle che ci appaiono le condizioni migliori affinché l’annuncio del Vangelo risuoni nitido nella coscienza dei nostri contemporanei non debba mai, proprio mai, abbandonarci. E che questo sia come un assillo che ci tormenta e giudica ogni nostra parola, ogni nostro silenzio. Nessuno dei potenziali interlocutori dovrebbe trovarsi a pensare che parliamo o taciamo per «interesse» personale, per qualche esplicita o inconfessabile partigianeria. Certo, anche noi siamo immersi nella società delle opinioni, spesso caotica e pigra nelle sue analisi. In troppi cedono alla tentazione di reagire con un giudizio netto e definitivo al semplice frammento estrapolato da un discorso ben più complesso. Stiamo al caso nostro. Sull’atteggiamento assunto dalla Chiesa nei riguardi delle scelte «private» del premier Berlusconi sui giornali si sta dicendo un po’ di tutto: «Repubblica» può permettersi un giorno di dire che si è arrivati da parte nostra a «scomunicare» Berlusconi e il giorno successivo asserire il contrario. Opinionisti famosi si alternano e allegramente si contraddicono, senza avvertire minimamente l’esigenza di argomentare la tesi sostenuta. E questa non è una variante indifferente. Ovvio che non si debba parlare soltanto per avere il plauso dei giornali, lo diceva non a caso l’altro giorno il cardinale Bagnasco. Ma nel ponderare le condizioni di innesto del Vangelo non si può trascurare il «contesto». Io ad esempio, per il mestiere che faccio, non posso non tenere conto degli sfottò che mi arrivano nell’arco delle ventiquattr’ore da personaggi del calibro di Francesco Cossiga o di Giuliano Ferrara. Per questi non è certo vero che «Avvenire» abbia parlato flebilmente, e dietro «Avvenire» è chiaro che costoro vedono altri. Voglio dire, don Matteo, che la domanda che conta in queste circostanze è, a mio avviso, la seguente: la gente è riuscita a individuare le riserve della Chiesa? Ebbene, la risposta che a me sembra di poter dare – ma il mio è comunque un ambito di osservazione limitato – è che la gente ha capito il disagio, la mortificazione, la sofferenza che una tracotante messa in mora di uno stile sobrio ci ha causato. I più attenti hanno compreso anche i messaggi specifici lanciati fino ad oggi a più riprese. Non è vero che quelli degli esponenti della Chiesa italiana siano stati interventi casuali o accenni fugaci impastati dentro a testi di tutt’altro indirizzo. Ciò che si è detto, lo si voleva dire. Esattamente in quei termini. Ripeto l’analogia fatta dialogando con il suo confratello don Gornati. Immagini che una situazione simile a quella vissuta in ambito nazionale si verifichi nell’ambiente in cui lei opera. Come parroco, sono certo che intensificherà le occasioni in cui essere ancor più prete, ancor meglio annunciatore delle esigenze del Vangelo. Dubito molto che si metterebbe a sbraitare fino a organizzare la dissidenza, fino a far nascere il dubbio che l’esito politico della faccenda le stia a cuore più della chiarezza del Vangelo. Ecco, questo mi pare il criterio con cui i vertici del nostro episcopato si sono mossi, in una logica magisteriale che è in continuo divenire. Per franchezza, vorrei non lasciar cadere il suo accenno allo «squallore» di certo interventismo degli organi della Chiesa: davvero non so immaginare a chi in concreto si riferisca ed eventualmente a quale circostanza. Devo dirmi sicuro tuttavia che nello scrivere quelle parole lei non pensasse certamente ad «Avvenire», altrimenti "parresia" avrebbe voluto che anche il suo parlare non fosse troppo cifrato. La saluto con simpatia.