Giornata alla memoria. Missionari martiri, senza paura e senza potere
Il 24 marzo del 1980 veniva brutalmente ucciso monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, arcivescovo di San Salvador. Ed è per questa ragione che l’odierna giornata è dedicata alla memoria di coloro che hanno dato la vita per la causa del Regno di Dio. Si tratta di uomini e di donne che, nella fede, hanno manifestato la parresìa, il coraggio di osare, nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo. Chi più di loro ha accolto e creduto fino in fondo nell’invito di Gesù, ripetuto con insistenza dopo la Resurrezione: «Non abbiate paura».
Un’espressione diretta e alquanto emblematica che quest’anno è stata scelta dalla Fondazione Missio – che rappresenta in Italia le Pontificie Opere Missionarie – come slogan per la Venticinquesima Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. D’altronde la posta in gioco è alta se si considera che la testimonianza dei martiri, come ha detto papa Francesco, «ci aiuta a non cadere nella tentazione di trasformare la fede in potere». Si tratta di una gratuità che rende davvero intelligibile il Verbo, cioè la Parola forte di Dio. A questo proposito, merita un’attenta riflessione un apologo raccontato dallo stesso vescovo Romero, nell’omelia del funerale di padre Navarro, uno dei suoi sacerdoti, ucciso nel maggio del 1977: «Si narra che una carovana, guidata da un beduino del deserto, era disperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del deserto.
E la guida diceva loro: “Non di là, di qua”. E così varie volte, finché uno della Carovana, innervositosi, tirò fuori la pistola e sparò alla guida che, ormai agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: “Non di là, ma di qua”. E così morì, indicando la strada». Questa spiritualità del “dito puntato” è espressione di un riverbero dell’anima che spinge tutt’oggi molte sentinelle del mattino a essere voci profetiche. La “Martyria”, nella tradizione della Chiesa, comprende sia l’annuncio che la testimonianza al mondo della parola del Vangelo (cf Mt 28, 19ss.). Un indirizzo che trova il suo fondamento, stando alla teologia biblica, nell’aver visto e udito Gesù, morto e risorto, che in forza della fede viene riconosciuto come Signore e Salvatore.
Ecco che allora il martirio ha un significato molto più estensivo che va ben oltre l’eroica testimonianza di colui che, di fronte alla virulenza del mysterium iniquitatis, all’opposizione ostinata del mondo, arriva fino all’effusione del sangue. In questa prospettiva, la celebrazione dei martiri riguarda dunque anche i “vivi”, cioè quegli uomini e quelle donne che hanno fatto la scelta di rimanere al fianco dei poveri, in condizioni non solo disagevoli, ma anche di grave pericolo. La loro fede – è bene rammentarlo – non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi è la radice di un’umanità autentica. E se la domanda fondamentale, che interpella ognuno di noi, è quella riguardante il senso e il significato delle persecuzioni che attanagliano, ancora oggi, molte comunità, i nostri missionari e missionarie, con il loro esempio, ci aiutano a cogliere un mistero che ci sovrasta: quello del trionfo pasquale della vita sulla morte. Questo è il valore aggiunto di una missionarietà senza confini che afferma la gioia del dono.
D’altronde, essere credenti, significa, innanzitutto, cogliere la certezza di una presenza, quella di Cristo, vivendo coerentemente e dignitosamente secondo il dettato evangelico. Proprio come ebbe a scrivere nel suo testamento, padre Christian de Chergé, il priore dei monaci trappisti uccisi in Algeria, a Tibhirine, il 21 maggio 1996: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese». Solo, allora, sperimentando questa libertà del cuore, davvero compassionevole, saremo in grado di corrispondere al Mandatum Novum di Nostro Signore, quel precetto dell’Amore di cui i nostri missionari sono paladini, fino agli estremi confini.