Francesco a Ur, una settimana dopo. Senza più inimicizia
Ur, città dei Caldei, era una 'culla di civiltà'... Sono passate due settimane da quando quel luogo, mèta di uno dei pellegrinaggi più intensi e rischiosi di papa Francesco, è apparso ai nostri occhi come un’oasi nel deserto, circondata di macerie fisiche e morali. Eppure, in quel luogo, come negli altri associati alle tappe del viaggio papale in Iraq, non c’era ombra di vittimismo né di rivincite. Il rancore e l’odio, che potevano essere protagonisti davanti a tanto lutto e distruzione, hanno lasciato il posto a un dolore acuto, drammaticamente condiviso e immediatamente dilatato agli altri luoghi della terra, segnati da persecuzione e guerra. Con questo viaggio, il martirio di tanti silenziosi testimoni è stato strappato alla coltre del silenzio con cui la 'globalizzazione dell’indifferenza' riveste le tragedie.
Il Papa ha portato fin là quella corrente calda di giustizia e di pace, che irresistibilmente si ingrossa, coinvolgendo coscienze, popoli, capi religiosi e politici. La sorgente di questa corrente è nel Vangelo stesso, ma possiamo scorgerla, già in dimensioni cresciute, in quel 27 ottobre 1986, ad Assisi, con san Paolo Giovanni II, o forse anche prima, in quell’11 aprile 1963, giorno della pubblicazione della Pacem in Terris, di san Giovanni XXIII. Quella corrente calda si è ingrossata a dispetto della risorgente, multiforme violenza, a dispetto delle parole grosse e delle allusioni taglienti che si scambiano i grandi del mondo, e che si ammanta anche di religione o si maschera nello strisciante cinismo.
Quella corrente, di ansa in ansa, è giunta al 27 marzo 2020, nella strettoia solitaria di piazza san Pietro, traversata dal passo lento del Successore di Pietro, che con voce mite e risoluta ci diceva: «Siamo tutti sulla stessa barca». Nel frattempo, si è arricchita della Fratelli tutti e ha illuminato quella solitudine! La nuova apertura è la tappa di questo ultimo pellegrinaggio di pace, sempre più scarno, con cui, 'tornando a casa' – alla casa di Abramo – ha riavviato ogni relazione interrotta, rafforzato le esistenti e tracciato – potremmo dire con Giorgio La Pira – un avanzamento della «geografia della Grazia», una «storiografia del profondo», una vera politica di pace.
Ma papa Francesco non si è limitato alla sola testimonianza, per quanto grande e luminosa, alla consolazione delle vittime, a tracciare un disegno storico che apra al futuro. Ha indicato la via concreta, possibile, perché tutto ciò si compia e non resti relegato all’utopia, dove ama confinarlo il cinismo morbido. «Da dove può cominciare il cammino della pace?», si è chiesto il Papa. E ci ha dato una risposta decisiva: «Dalla rinuncia ad avere nemici», precisando con un bisturi che sembra linguistico, ma è sostanziale: «Il male è l’inimicizia». Sì, separare 'nemico' da 'inimicizia' è decisivo.
È la rimozione dell’ostacolo primordiale, la possibilità di uscita dall’inganno che inevitabilmente portano il concetto e la cultura del nemico. «Non contro qualcuno, ma per tutti», continua Francesco e specifica ulteriormente, offrendo un indicatore per accorgersi dell’inganno: «Finché gli altri saranno un loro anziché un noi». Una prospettiva di inclusione assoluta. Il nemico infatti ci giustifica, ci fa credere che un 'altro', in carne e ossa lo sia, divenendo minaccia insuperabile che ci autorizza in qualche modo a escluderlo, ad andargli contro, a eliminarlo dalla nostra strada.
Questo messaggio limpido sul nemico smaschera il nostro inganno, per cui ci presumiamo innocenti e addossiamo sugli altri colpe e responsabilità. Ci riconduce al rischio evidente: siamo tutti 'portatori sani di nemico', diremmo con linguaggio medico, l’inimicizia incombe su ogni relazione. In questo passaggio sta, forse, il cuore di ogni pellegrinaggio di giustizia e di pace. Fondandolo sul dialogo, Francesco rivela come la giustizia sia pienezza della vita e non soltanto un criterio matematico.
Si riscopre che, praticando la relazione fondata sul dialogo, ciascuno di noi, nella irriducibile differenza, non perde l’identità, ma cresce nella propria pienezza, non abdica alla propria storia, ma la riconosce come un’identità in cammino, evolutiva e insieme inclusiva. Un criterio di autenticità è fissato: non c’è nemico, ma inimicizia: un virus globale. Davanti ai mille sogni effimeri, consumistici e frammentati, divergenti e conflittuali del nostro tempo, papa Francesco ci ha richiamati da Ur, dalla casa di Abramo, al semplice sogno umano, un sogno inclusivo, e ci ha invitati per questo ad alzare gli occhi verso le stelle, come fu l’invito di Dio ad Abramo.
Fissare lo sguardo verso le stelle significa posizionare il cuore e la mente sul punto più alto per convergere da ogni possibile differenza. Nel contempo, questo invito ad alzare gli occhi e innalzare il cuore non ci permette di distogliere lo sguardo dalla vicenda umana, dalla necessità ineludibile di guardare il prossimo, di uscire dall’indifferenza, dall’inganno del nemico, per poter restare Abele e non diventare Caino.