Opinioni

Perché no alle telecamere negli asili. Senza fiducia siamo finiti

Matteo Salvati mercoledì 12 dicembre 2018

Caro direttore,
c’è una frase, scritta da George Orwell nel Grande fratello che mi ha sempre colpito tanto. Alla domanda: 'Il grande fratello esiste come esisto io?' la risposta è: 'Tu non esisti'. Il via libera alle telecamere negli asili nido lombardi non è, a mio avviso, un passo di civiltà. Se ne sentiva il bisogno? Sì. Ma non bisogna porre in essere tutto ciò di cui si sente il bisogno. La pulsione a controllare è comune a molti genitori, forse a quasi tutti. Forse a tutti. Ma non è una pulsione genuina. È comprensibile, ma va scacciata, non alimentata. È il trailer della militarizzazione dell’esistenza. Se si imbocca quella strada, siamo finiti.

È curioso poi il fatto che viviamo in un momento storico che, mai come ora, vive due estremismi antitetici e antietici e contraddittori. Da un lato infatti c’è una concezione della privacy patologicomaniacale, dall’altro c’è una volontà di controllo smodato e indisciplinato. Tutti, ovviamente, battono i pugni ritenendo un diritto controllare. Tutti, ovviamente, battono i pugni ritenendo di non dover essere controllati. Tutti asseriscono che il nemico c’è. Ma è altrove. Certo, si potranno controllare, spiare, scuole elementari e medie, oratori, case di riposo, sale operatorie e sale del commiato (per evitare notturni episodi di necrofilia)... Tutto questo timore presuppone però un tradimento basico, il tradimento del patto di fiducia che esiste tra gli esseri umani e che è alla base non delle relazioni, ma della sussistenza stessa della vita.

Nasciamo e cresciamo perché ci affidiamo a qualcuno perché ci fidiamo di qualcuno. Mettere in discussione questo alla base, come partito preso, significa educare al sospetto come regola di vita, significa inculcare la cultura della diffidenza. Significa, è paradossale ma è così, deresponsabilizzare qualcuno, perché se ogni atto è ripreso io posso giustificarmi con gli altri, mentre non c’è più la mia coscienza che è investita di autorità. Se un insegnante ha percosso un bambino, qui sta il fulcro non compreso, lo ha fatto come persona, non come insegnante. Ecco: è la volontà non di redimere, ma di sterilizzare il genere umano che è sbagliata. Perché si abbracciano di volta in volta categorie: i sacerdoti, le maestre, i medici, quasi vi fosse un genere di professione pericoloso. Ma ogni uomo è impastato di concupiscenza, di appetitus boni e di libero arbitrio.

Non è limitandolo il più possibile che si maturerà come società. In aggiunta, si educa con questi provvedimenti un figlio non a non sbagliare, ma a non poter sbagliare. È diverso. È grave. Come faccio a essere corretto se i miei educatori, fin dall’asilo, per i miei genitori sono i primi pronti a farmi del male? E se il concetto che passa è quello che la solidarietà nel male sia più strutturata e radicata di quanto non lo sia la sussidiarietà nel bene? In quest’ottica, come asserirebbe Orwell, la nostra vita non è piena e sicura. Semplicemente, così spersonalizzati, non esistiamo.