Perché no alle telecamere negli asili. Senza fiducia siamo finiti
Caro direttore,
c’è una frase, scritta da George Orwell nel Grande fratello che mi ha sempre colpito tanto. Alla domanda: 'Il grande fratello esiste come esisto io?' la risposta è: 'Tu non esisti'. Il via libera alle telecamere negli asili nido lombardi non è, a mio avviso, un passo di civiltà. Se ne sentiva il bisogno? Sì. Ma non bisogna porre in essere tutto ciò di cui si sente il bisogno. La pulsione a controllare è comune a molti genitori, forse a quasi tutti. Forse a tutti. Ma non è una pulsione genuina. È comprensibile, ma va scacciata, non alimentata. È il trailer della militarizzazione dell’esistenza. Se si imbocca quella strada, siamo finiti.
È curioso poi il fatto che viviamo in un momento storico che, mai come ora, vive due estremismi antitetici e antietici e contraddittori. Da un lato infatti c’è una concezione della privacy patologicomaniacale, dall’altro c’è una volontà di controllo smodato e indisciplinato. Tutti, ovviamente, battono i pugni ritenendo un diritto controllare. Tutti, ovviamente, battono i pugni ritenendo di non dover essere controllati. Tutti asseriscono che il nemico c’è. Ma è altrove. Certo, si potranno controllare, spiare, scuole elementari e medie, oratori, case di riposo, sale operatorie e sale del commiato (per evitare notturni episodi di necrofilia)... Tutto questo timore presuppone però un tradimento basico, il tradimento del patto di fiducia che esiste tra gli esseri umani e che è alla base non delle relazioni, ma della sussistenza stessa della vita.
Nasciamo e cresciamo perché ci affidiamo a qualcuno perché ci fidiamo di qualcuno. Mettere in discussione questo alla base, come partito preso, significa educare al sospetto come regola di vita, significa inculcare la cultura della diffidenza. Significa, è paradossale ma è così, deresponsabilizzare qualcuno, perché se ogni atto è ripreso io posso giustificarmi con gli altri, mentre non c’è più la mia coscienza che è investita di autorità. Se un insegnante ha percosso un bambino, qui sta il fulcro non compreso, lo ha fatto come persona, non come insegnante. Ecco: è la volontà non di redimere, ma di sterilizzare il genere umano che è sbagliata. Perché si abbracciano di volta in volta categorie: i sacerdoti, le maestre, i medici, quasi vi fosse un genere di professione pericoloso. Ma ogni uomo è impastato di concupiscenza, di appetitus boni e di libero arbitrio.
Non è limitandolo il più possibile che si maturerà come società. In aggiunta, si educa con questi provvedimenti un figlio non a non sbagliare, ma a non poter sbagliare. È diverso. È grave. Come faccio a essere corretto se i miei educatori, fin dall’asilo, per i miei genitori sono i primi pronti a farmi del male? E se il concetto che passa è quello che la solidarietà nel male sia più strutturata e radicata di quanto non lo sia la sussidiarietà nel bene? In quest’ottica, come asserirebbe Orwell, la nostra vita non è piena e sicura. Semplicemente, così spersonalizzati, non esistiamo.