Opinioni

Le minatrici sarde. Semplicemente, tutte Maria

Marina Corradi martedì 2 dicembre 2014
«Abbiamo un nome solo: chiamateci tutte Maria ». Da giorni 37 donne occupano una miniera nel Sulcis. Da sei mesi non ricevono stipendio dalla Igea, una società partecipata dalla Regione Sardegna. Sono fra le ultime operaie della immensa schiera dei 40mila che lavoravano in questo comprensorio minerario. Un’area depressa, di cui raramente si legge sui giornali. Forse per questo le operaie hanno pensato a una protesta inconsueta: donne asserragliate dietro i cancelli di una galleria, l’elmetto in testa, e un passamontagna che lascia scoperti solo gli occhi. Dietro alle grate quei volti evocano al primo momento immagini di clausura: ma, diversamente che fra le monache in convento, questi sono occhi disperati. C’è chi è nonna, c’è chi ha un figlio di appena otto mesi e se lo fa portare, e lo allatta sotto alle rocce annerite. Promettono che non se ne andranno senza un risultato, giurano che non molleranno. I nomi non contano: «Ci chiamiamo tutte Maria». E proprio questo nome collettivo tratto dalla religiosità popolare fa pensare non a una protesta di donne, ma quasi della donna stessa, in questa terra senza lavoro. Maria che allatta e Maria che è nonna, Maria che ha un figlio che studia, e un marito disoccupato che per l’avvilimento non esce più di casa. Ha la dolorosità di una tragedia classica l’unico nome che le operaie si sono scelte, l’unico volto, sotto a quello che sembra un velo nero. Domenica il vescovo di Iglesias ha celebrato la Messa per loro, chiuse nella galleria. Non c’era tanta gente. Ma un minimo risultato le occupanti lo hanno ottenuto, di riuscire a richiamare qualche telecamera. Le loro facce di volontarie prigioniere sono passate su un tg nazionale. Otterranno qualcosa, bucando l’invisibilità che avvolge le periferie più dimenticate? «Non vogliamo creare disagi – ha detto una di loro, quasi a scusarsi –, ma quando si sta per morire si è disposti a tutto ». Parole come un grido dal silenzio, parole del colore del piombo, che dicono il dramma di una provincia del Sud, in questa fine di 2014. E non di una sola donna ma di tante, di troppe. Così che il nome non è più rilevante: si chiamano, in quella vecchia miniera, semplicemente Maria.