I poeti e noi. La corazza di Ettore che s’incrina mostra la fragilità dell’eroismo
L'incontro di Ettore e Andromaca alla porta Scea, dipinto di Ferdinando Castelli, Accademia delle Belle Arti di Brera
L’Iliade racconta il nono anno, il penultimo, della guerra di Troia. Da tempo gli Achei cercano di conquistare la città, ma i Troiani resistono. L’Iliade è poema corale, ma due eroi spiccano su tutti gli altri: l’acheo Achille, il guerriero più forte del suo esercito, ed Ettore, figlio del re Priamo, il più valoroso tra i troiani. Spesso l’Iliade narra di battaglie, ma anche di scontri individuali. La guerra non è vista negativamente: è certo dolorosa, ma permette agli eroi di mostrare il loro valore. Fondamentale, nella cultura dell’Iliade, è il concetto di timè. La timè è l’onore, inteso come reputazione pubblica di una persona, da difendere a tutti i costi. La stima che un eroe riceve deve essere riconosciuta da tutti. Non servono gesti di eroismo privato: la società intera deve riconoscere il tuo onore. Onore che va difeso anche a prezzo della vita: chi è disonorato non vale più nulla agli occhi degli altri e incorre nell’aidós, cioè nella vergogna: la morte è, in tal caso, una sorte molto migliore.
Vivere cercando l’altrui approvazione, lottare ogni giorno per confermare il proprio onore e per fuggire la vergogna è estremamente impegnativo, a tratti persino disumano. Mi colpisce molto come il pittore Giorgio De Chirico, nel Novecento, rappresenta spesso questi eroi: come manichini, quasi a dire che la sensibilità umana rischia di perdersi, se si è mossi solo dalla propria reputazione da difendere e dalla paura del giudizio degli altri. È una situazione in cui tutti, prima o poi rischiamo di trovarci. Sono i momenti in cui mettiamo le aspettative degli altri prima dei nostri desideri più autentici, la carriera prima degli affetti, il successo prima del rispetto degli altri, l’autoaffermazione prima della relazione. Sono i momenti in cui ci troviamo trascinati in una corsa appassionante, nella quale schiacciamo l’acceleratore sempre di più, rendendoci conto solo troppo tardi che ci siamo allontanati da noi stessi.
Molti anni fa per lavoro ebbi modo di intervistare un imprenditore di grande successo nel settore dolciario. Mi raccontò degli inizi difficili, poi dei primi risultati, dei negozi che si moltiplicavano, della produzione che aumentava. L’acceleratore era schiacciato, la velocità cresceva vertiginosamente, la timè risplendeva trionfale. «Ma tutto questo ha un suo prezzo» diceva. «La sera sono sempre tornato a casa tardissimo. Non ho visto crescere i miei figli. Il periodo natalizio è uno dei più caldi: non so da quanti anni non trascorro le intere giornate di Natale e Capodanno con la mia famiglia. Qui non ci si può fermare mai». Non erano parole di rimpianto, ne era fiero. Dopo averlo salutato, me ne andai con una sottile sensazione di angoscia.
Anche Ettore e Achille, nell’Iliade, vivono così, sempre appesi all’onore e al giudizio altrui, dentro al loro ruolo di guerrieri valorosi, privi di ogni esitazione, avvolti nella loro impenetrabile corazza. Ci sono però momenti in cui questa corazza si incrina. Nella logica della timè, sono momenti pericolosi. Eppure proprio da lì emerge una bellezza sfolgorante.
In uno di questi momenti, Ettore, armato di tutto punto e pronto a tornare sul campo di battaglia, viene fermato presso le porte di Troia da sua moglie Andromaca, che lo raggiunge con il loro figlioletto Astianatte, accompagnata dalla balia. Nel bel mezzo della guerra, si apre uno squarcio di intimità domestica. Andromaca è disperata: chiede a Ettore di non lasciarla, di non tornare a combattere. “Il tuo valore sarà la tua rovina” gli dice. Andromaca ha paura: Achille ha già sterminato la sua famiglia; ha ucciso infatti suo padre Ezione e i suoi sette fratelli. La donna non vuole perdere anche suo marito, lui è tutto ciò che le resta: «Sei per me padre e madre, sei per me fratello e sposo!» esclama accorata. Dà poi un consiglio al marito: difendere la città dall’interno, rafforzando i punti deboli delle mura, senza correre i rischi di uno scontro in campo aperto.
Ettore non è un insensibile, è anzi un uomo di straordinaria umanità. Nella sua risposta alla moglie emerge tutto l’affetto per lei. L’eroe prefigura la caduta di Troia, la devastazione della città, ma aggiunge che ciò che lo tormenta di più, più ancora del destino dei suoi stessi genitori, è quello che potrebbe accadere ad Andromaca: sarebbe presa come schiava, portata in Grecia. Forse, qualcuno, vedendola svolgere le mansioni più umili, dirà: ecco Andromaca, la moglie di Ettore, il primo tra i Troiani in battaglia. Di fronte a questo tragico destino, Ettore non esita: «Voglio essere morto prima di sentire le tue urla, di sapere che ti hanno rapita». Perché allora Ettore non resta con lei, come Andromaca chiede? L’eroe lo dice all’inizio del suo discorso: «Ho vergogna di fronte ai troiani e alle troiane». Se rinunciasse alla battaglia, se mandasse gli altri a rischiare al suo posto, la sua timè sarebbe cancellata. Ettore non può venire meno al suo ruolo sociale. Quando la corsa appassionante è iniziata, quando le aspettative degli altri ci hanno ingabbiato, non possiamo più tirarci indietro, siamo prigionieri della nostra stessa immagine: dobbiamo vivere facendo splendere il manichino che ormai siamo di fronte al mondo; un manichino privo di vita vera, ma che tutti ammirano.
Alla fine del dialogo tra Ettore e Andromaca però accade qualcosa di sorprendente. Il manichino vacilla, la corazza si incrina, irrompe la luce. Ettore guarda suo figlio Astianatte e, in un impeto di tenerezza, gli tende le braccia. Ma il bambino non lo vede per ciò che è: vede solo l’armatura che lo ricopre. Davanti al piccolo c’è un guerriero, uno che incute timore con quel cimiero che oscilla. Astianatte dunque piange e si gira verso il petto della sua balia.
Ettore allora si toglie l’elmo e lo depone a terra, volgendosi poi di nuovo a suo figlio. I volti adesso si incontrano: non c’è più la corazza della timè, c’è l’autenticità di una relazione primordiale; non c’è più il manichino da tutti ammirato: per un magico istante c’è l’uomo, c’è il papà. Stavolta Astianatte si lascia prendere in braccio. Ettore lo bacia, lo solleva, formula una preghiera a Zeus e agli dei: che quel suo figlio sia glorioso, che un giorno qualcuno possa dire di lui: «È molto meglio del padre». Sono parole di una potenza inaudita: nella logica della timè Ettore deve essere sempre il migliore, deve primeggiare su tutti. Ora si augura che qualcuno, suo figlio, sia migliore di lui. Andromaca coglie la forza di quelle parole. Prende il figlio dalle braccia del marito, lo stringe a sé, piange e insieme ride. Ma Ettore ha già ripreso l’elmo, si è già diretto al campo di battaglia. Ad Andromaca non resta che tornare a casa. Lì, insieme alle ancelle, inizia il lamento per il marito, destinato dagli inesorabili ingranaggi del Destino ad essere ucciso da Achille.
I timori di Ettore, purtroppo, troveranno compimento. La sua città sarà distrutta, sua moglie Andromaca diverrà una schiava, ma allora Ettore sarà già morto e, come prefigurato dalle sue parole, non dovrà sopportare quel dolore. Non si compirà nemmeno ciò che Ettore desidera per suo figlio. Quando gli Achei conquisteranno la città, Astianatte sarà gettato giù dalle mura di Troia e troverà così la morte, secondo il desiderio dei nemici, determinati a sterminare l’intera popolazione maschile della città per cancellare la possibilità di una discendenza troiana.
Alcune fonti affermano che ad uccidere il figlio di Ettore fu Neottolemo, lo spietato figlio di Achille. Perché compiere un gesto di così grande disumanità? Perché, se Astianatte fosse cresciuto, avrebbe avuto il dovere di vendicare la morte del padre Ettore per mano di Achille. Ed essendo Achille già morto a sua volta prima della fine della guerra, la vendetta avrebbe dovuto ricadere sul di lui figlio Neottolemo. Questa è logica delle timè: va difeso l’onore della famiglia di generazione in generazione, il perdono non può avere spazio. Così un innocente bambino viene brutalmente scagliato nel vuoto: Neottolemo lo fa per evitare che quello stesso bambino un domani lo uccida. Neottolemo colpisce per primo, prima che ci sia la possibilità di essere colpito. È la logica perversa della guerra preventiva, ma è anche un monito per ciascuno di noi: o rinunci radicalmente alla logica dell’onore a tutti i costi e scegli la strada dell’umanità, o difenderai il tuo onore seminando odio e distruzione, in una spirale che rischia di non fermarsi più, sia che si tratti di una serie di vendette mafiose, sia che si tratti di una banale lite di condominio oppure di una discussione tra parenti su una eredità.