Qatar. Se per capire l'Afghanistan ora serve guardare a Doha
Oltre a essere una tragedia per gli afghani, il ritorno al potere dei taleban in Afghanistan è un rompicapo per la diplomazia internazionale. Parlare con i mullah, ma come? Isolarli, ma con quali conseguenze? Ogni cancelleria, poi, nutre il timore che di qualunque decisione siano altri ad approfittare. Tra tutti, il Paese meglio piazzato è il piccolo ma ricchissimo Qatar. Il che è abbastanza sorprendente perché fino a non molto tempo fa, ai tempi dell’embargo economico e politico decretato nel 2017 dagli altri Paesi del Golfo Persico, si poteva persino dubitare della sopravvivenza dell’emirato.
Però il Qatar ha resistito e dalla crisi (ufficialmente rientrata nel marzo di quest’anno) è uscito con un peso politico e una presenza internazionale (lo troviamo anche in Libia, a fianco della Turchia nel sostegno al governo di Tripoli) sempre crescenti. Non è un caso, quindi, se la prima visita diplomatica di peso a Kabul è stata quella del ministro degli Esteri qatariota, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, che è volato a incontrare il mullah Akhund pochi giorni dopo la sua nomina a primo ministro del Governo talebano dell’Afghanistan. La relazione tra l’emirato (e quindi la famiglia Al-Thani, che lo domina da un secolo e mezzo) e i talebani viene da lontano. Negli anni del primo potere islamista sull’Afghanistan (cioè tra il 1996 e il 2001), il Qatar non riconobbe il regime talebano, che infatti ebbe allora come sostenitore e partner privilegiato l’Arabia Saudita. Il punto di svolta è il 2013, quando Doha, capitale del Qatar, viene scelta come sede dei negoziati tra gli Usa e i talebani. Una decisione molto più complicata di quanto si possa pensare. A quel ruolo si erano candidate anche la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti. La Turchia non piaceva ai talebani perché Paese della Nato, e gli Emirati perché giudicati troppo succubi degli americani.
A loro andava invece bene il Qatar, perché considerato più neutrale e perché avevano apprezzato le sue mediazioni in crisi difficili come quella tra Sudan ed Eritrea nel 2011 e tra Fatah e Hamas, in Palestina, nel 2012. Anche agli Usa andava bene che la scelta cadesse sul Qatar, Paese con cui hanno relazioni più che cordiali e che ospita, tra l’altro, la più grande base militare americana del Medio Oriente, quella di Al Udeid, alle porte di Doha. Da allora il Qatar non ha mai interrotto la sua sottile opera di mediazione tra i talebani e gli Usa. Con risultati apprezzati da entrambe le parti. Per fare un solo esempio: cinque dei talebani che hanno ricevuto incarichi nell’attuale Governo furono detenuti per 13 anni a Guantanamo e furono liberati nel 2014, grazie appunto alla mediazione qatariota, in cambio del sergente Bowe Bergdahl.
Gran parte del Governo appena insediato a Kabul, poi, è formato da talebani che hanno lavorato a Doha e hanno partecipato ai colloqui con la controparte Usa, a cominciare dai due vicepremier, il mullah Baradar (che era il capo negoziatore) e Maulawi Abdul Salam Hanafi, altro importante membro del team negoziale. Di fatto, oggi, il Qatar è l’unico Paese che può vantare una linea diretta sia con i talebani sia con gli Usa. E si candida, quindi, a far da portavoce di entrambi per una relazione che sarà magari sotterranea ma non si interromperà, perché nessuno, in Occidente, vuole 'regalare' una posizione strategica come quella dell’Afghanistan alla Russia o alla Cina. Non è rendita politica di poco conto, per l’emirato.
Che però cerca anche altro. La famiglia al-Thani, attraverso l’Afghanistan, cerca un accesso privilegiato all’Asia Centrale, considerata un fertile terreno per futuri investimenti che possano almeno in parte alleviare le incertezze legate ai mercati internazionali dell’energia, visto che petrolio e gas costituiscono il 70% delle entrate dello Stato. Dl 1992, cioè dalla fondazione della Qatar Charity, l’emirato ha varato una massiccia 'diplomazia della moschea', costruendo nel mondo quasi 8 mila moschee. Le più grandi e imponenti sono appunto in Asia Centrale. Per esempio a Dushanbe, capitale del Tagikistan, dove ha speso 100 milioni di dollari per edificare una moschea capace di accogliere 115 mila fedeli alla volta. O ad Astana, capitale del Kazakhstan, dove ha finanziato la costruzione di un grande centro islamico.
O in Kirghizistan, dove ha donato i fondi per trenta nuove moschee. Attività 'benefiche' (con virgolette, perché nessuno ha dimenticato il sostegno del Qatar a movimenti radicali come i Fratelli Musulmani) che si accompagnano a investimenti nei settori del gas, del petrolio ma ancor più delle banche, dell’agricoltura e della trasformazione alimentare. Occhio al Qatar, quindi. Come è successo negli anni scorsi, per capire ciò che succede a Kabul spesso converrà guardare a Doha.