Sono trascorsi sessanta anni da quando il 10 dicembre 1948, sull’onda delle atrocità e degli orrori perpetrati nel corso della più aberrante tra le guerre della Storia, venne posta dal consesso delle nazioni la firma alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Una Carta che idealmente avrebbe dovuto costituire un punto fermo, una sorta di deterrente contro ogni forma di discriminazione, abuso e limitazione della propria e altrui libertà, nel pieno rispetto del sacrosanto valore della vita. Eppure, da allora, l’umanità è stata artefice di inenarrabili cambiamenti che sembrano averla spinta ben oltre ogni previsione. Sta di fatto che nonostante i vertici di progresso mai prima raggiunti - dall’avvento del digitale alla scoperta del genoma - l’uomo ha permesso che la violenza si esprimesse ancora attraverso cento, mille forme, a cominciare da quella subdola e feroce del terrorismo. Ecco che allora la cosiddetta "era della globalizzazione", priva delle avanguardie capaci di affermare il primato dell’essere sull’avere, pare abbia reso l’uomo dissennato rispetto alle istanze del bene comune. La nostra, d’altronde, è sempre più una società planetaria in cui la divaricazione raggiunge gli estremi, una civiltà che conosce la struttura atomica e manomette l’ecosistema, afferma gli ideali della democrazia e della tolleranza e consente l’aggravarsi dell’inedia e delle pandemie, non risolvendo soprattutto la sperequazione tra ricchi e poveri. Lungi da ogni disfattismo, i trenta articoli della Dichiarazione hanno comunque segnato un avanzamento nel cammino verso una migliore concezione dell’esistenza. Un orizzonte più umano per chi è preposto all’azione politica, ma soprattutto una condizione favorevole per quella fioritura di associazioni, gruppi e movimenti che, prim’ancora dei governi, hanno dato voce ai senza voce, difendendo le masse impoverite. Ma tale progresso non basta, come scrive saggiamente Philip Alston, uno dei massimi esperti di Diritto internazionale, quando afferma che una delle sfide nel campo dei diritti umani sta proprio nell’estensione della portata del principio di responsabilità dagli Stati a certe realtà che non rientrano nei classici parametri statuali quali, in primo luogo, le imprese multinazionali e le grandi organizzazioni finanziarie internazionali. Si tratta di entità a sé stanti, che rispondono alla logica della massimizzazione del profitto a tutti i costi, le cui esigenze sono entrate troppo spesso in conflitto con l’agenda dei diritti; al punto che coloro i quali, nelle periferie del mondo, non hanno potere contrattuale e potere di acquisto, sono destinati a soccombere nei ghetti della povertà assoluta. E cosa dire delle tante guerre dimenticate, dal Darfur alla Somalia, passando per l’ex Zaire, dove gli appetiti irrefrenabili dei signori della guerra rispondono al diktat dell’interesse di potentati soprannazionali più o meno occulti?Per non parlare poi delle vessazioni perpetrate da certi regimi contro le minoranze religiose, come anche della penosa questione del debito dei Paesi in via di sviluppo, il cui azzeramento esige decisioni ispirate al rispetto di un diritto alla vita capace di tutelare coloro che sbarcano il lunario con meno di un dollaro al giorno. E ancora, sarebbe auspicabile che si favorissero politiche di disarmo con la forza del diritto, cancellando una volta per tutte l’onta penosissima degli effetti collaterali dei conflitti sulle popolazioni civili inermi costrette spesso alla migrazione.Questi sono alcuni esempi che ci spingono a pensare che sia davvero impellente l’istanza di ripensare il sistema dei diritti umani, attualizzandolo in funzione del susseguirsi sempre più rapido di avvenimenti che in pochi decenni hanno profondamente cambiato il mondo. E se è vero che l’egoismo umano appare sempre in agguato, alimentato dal pensiero debole e dalle conseguenti visioni surrettizie, per ogni retta coscienza, i diritti vanno consolidati, implicando necessariamente degli obblighi. Obblighi che se non vengono onorati rendono i diritti parole drammaticamente evanescenti.