Il medico. Se non c'è il "diritto di morire" va estesa la protezione della vita
La sentenza della Corte costituzionale e i princìpi da bilanciare La recente sentenza della Corte costituzionale 135/2024, che fa seguito a quella del 2019, ha nuovamente affrontato il tema del fine vita e in particolare dell’aiuto al suicidio assistito, della sua non punibilità e, in sostanza, della possibilità di accesso alla anticipazione della morte da parte di persone affette da ma-lattie irreversibili, fonti di sofferenza intollerabile, pienamente consapevoli e sottoposte a trattamenti di supporto vitale. Proprio intorno al tema dei trattamenti di supporto vitale si è svolto il ragionamento di questa nuova sentenza, sollecitata dai giudici di Firenze a proposito di una paziente che non presentava questo specifico requisito rispetto agli altri invece presenti, e che è stata aiutata a morire (in Svizzera).
Si chiedeva alla Corte se questa non fosse una discriminazione e se non fosse incostituzionale consentirla per legge. Evidentemente il cuore del problema stava e sta nella richiesta di allargare la possibilità del ricorso al suicidio assistito rispetto ai paletti posti dalla Corte nel 2019. Come ha risposto la Corte a questa precisa sollecitazione? Leggendo attentamente tutta la replica al quesito dei giudici di Firenze credo si possa notare un duplice atteggiamento dei giudici costituzionali. Da un lato essi argomentano sottolineando che il diritto alla vita «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona » (citando sé stessa nella sentenza 50/2022 sulla inammissibilità del referendum abrogativo dell’articolo 579 del Codice penale sull’omicidio del consenziente, referendum richiesto dall’Associazione radicale Coscioni, «il cui esisto sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una condizione di insufficiente protezione»).
Perciò i giudici ritengono che sia necessario «il mantenimento di una “cintura di protezione” contro scelte autodistruttive (...) di persone che attraversano difficoltà e sofferenze». D’altro canto, sostengono che sia comunque necessario un bilanciamento tra interessi diversi quali il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione e che è riconosciuto a ogni paziente il diritto a rifiutare ogni trattamento sanitario (citando qui la legge 219/2017), «rifiuto che determinerebbe la prospettiva del decesso in un breve lasso di tempo in pazienti che sarebbero in grado, proseguendo quei trattamenti, di sopravvivere a lungo». Ecco che allora si delineano, nonostante le premesse di salvaguardia della vita citate, le possibilità di trasgredire questa salvaguardia anticipando la morte, con il suicidio assistito, in quelle situazioni in cui la vita, affetta da malattia irreversibile e fonte di sofferenze non sopportate, dipende da trattamenti di supporto vitale, ferma restando la piena coscienza e consapevolezza del soggetto.
I giudici dicono che se si possono rifiutare i trattamenti che mantengono in vita, con la conseguenza di una anticipazione della morte, ecco che allora «non ci deve essere un’unica modalità per congedarsi dalla vita», quella appunto del rifiuto delle cure, ma anche tramite il suicidio assistito. A questo punto diventa essenziale capire quali siano i trattamenti di supporto vitale, che si possono rifiutare (come tutti gli altri trattamenti, del resto, ma da cui debbono pur distinguersi) e la cui presenza dia il possibile accesso al suicidio assistito (sempre attraverso la non punibilità di chi aiuta, non dimentichiamolo). Ed è proprio su questo che i giudici prendono una strada diversa dalle premesse, là dove dichiarano di voler sottolineare la priorità del diritto alla vita e della tutela delle persone sofferenti. Infatti essi, pur riconoscendo che né nel diritto né nella letteratura scientifica via siano definizioni chiare ed esaustive (come aveva sottolineato anche la recente risposta del Comitato nazionale per la Bioetica al Comitato etico territoriale di Perugia), di fatto ne danno un’interpretazione estensiva che comprende non solo le strumentazioni che sostituiscono le funzioni degli organi vitali (come aveva invece suggerito la maggioranza del Cnb nella citata risposta), non solo l’alimentazione e idratazione artificiali e le terapie farmacologiche “salvavita”, ma anche «ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo (...) compiuto da personale sanitario (...) o da caregivers che si facciano carico dell’assistenza del paziente», citando espressamente «l’evacuazione manuale dell’intestino, l’inserimento di cateteri urinari, l’aspirazione di muco dalle vie bronchiali».
In pratica con questa interpretazione di sé stessa (cioè del “paletto” da lei fissato) la Corte ha di fatto allargato enormemente la platea di pazienti che potrebbero accedere al suicidio assistito senza che chi li aiuta possa essere punito. In conclusione perciò questa sentenza è una sorta di Giano bifronte: nel proclamato “bilanciamento” tra diritti – alla vita e all’autodeterminazione – in teoria si dà rilievo al primo e nella pratica si dà molto spazio al secondo. Da un lato non si introduce nessun diritto al suicidio assistito, come del resto già nella precedente sentenza, dall’altro però lo si permette a un numero potenzialmente molto più ampio di persone vulnerabili a motivo di una malattia irreversibile e fonte di sofferenza. Il richiamo alla necessità delle cure palliative e di una loro concreta offerta da parte del Servizio sanitario nazionale rimane comunque un appello importante che chi di noi nelle cure palliative lavora da anni sa essere la risposta più attesa dalle persone che vivono l’esperienza di una ma-lattia inguaribile, per la loro capacità di una presa in carico globale dei bisogni di cura dei pazienti e delle loro famiglie.
* Direttore Hospice San Carlo Potenza Componente Comitato nazionale per la Bioetica