Nel dibattito sulla "revisione della spesa" è stato proposto un aumento delle tasse universitarie, differenziato per soglie di reddito, per gli studenti universitari fuori corso: si tratta di un forte incentivo alla riduzione della durata degli studi nell’Università in Italia, che con l’introduzione della riforma del cosiddetto 3+2 ha invece mostrato una preoccupante tendenza all’aumento. Al tempo stesso l’incentivo economico alla riduzione della durata degli studi deve potersi accordare con l’esigenza di aumentare il livello di istruzione superiore e universitaria nella popolazione giovane e nel mercato del lavoro, tenendo tuttavia conto della specificità del sistema sociale italiano. È da apprezzare socialmente il fatto che numerosi giovani e meno giovani cerchino di coniugare il lavoro con gli studi universitari, il che tuttavia comporta spesso un allungamento dei tempi rispetto ai coetanei che non lavorano: sarebbe quindi opportuno un certo grado di flessibilità per le situazioni documentabili di lavoro e studio.A differenza del mondo anglosassone esistono rari esempi di temporanee interruzioni dell’attività lavorativa per il conseguimento di ulteriori qualificazioni, mentre invece sarebbe da favorire la possibilità pratica, e non solo teorica, di periodi di aggiornamento lungo l’intero arco di vita professionale. Anche in questo caso il mondo anglosassone, e in particolare gli Stati Uniti, si distinguono per l’ampia offerta di corsi serali, o comunque con tempi compatibili con il lavoro, nel corso dell’estate o in settimane concentrate: è questo uno spazio di offerta che il nostro Paese dovrebbe finalmente, e utilmente, proporre. Il patrimonio umano di qualità e competenze dei giovani, e il mantenimento di tale patrimonio nel tempo è un obiettivo fondamentale per un Paese come l’Italia, che sulle capacità, l’intelligenza e l’intraprendenza dei suoi lavoratori e imprenditori ha prosperato, superando difficoltà e crisi. L’allungamento della durata dei tempi di studio universitario, quando non giustificato da un’attività di lavoro, è in questo senso uno spreco di patrimonio umano che, se da un lato va disincentivato con tasse aggiuntive, dall’altro va soprattutto prevenuto sul piano dell’organizzazione e della didattica. La dimensione organizzativa – dalle biblioteche alle attrezzature disponibili per gli studenti e i docenti – rappresenta il tallone d’Achille di molte università italiane, eccellenti sul piano della qualità della ricerca e dell’insegnamento, ma frenate da regole inadeguate o da risorse insufficienti. La conseguenza è il tempo sprecato o male utilizzato da parte degli studenti, dei docenti e del personale amministrativo, nonché il rischio incombente che un spazio sociale dedicato alla produzione e trasmissione di nuova conoscenza si trasformi in una struttura burocratica che produce esami come fossero bulloni.Le figure dei
supervisor, parte integrante dell’organizzazione didattica anglosassone, sono quasi del tutto assenti nel sistema italiano e sono inadeguate le risorse per compensare, a un livello dignitoso, chi si dedica alle esercitazioni, molto spesso preziose, quanto e più delle lezioni, proprio per gli studenti che hanno maggiori difficoltà o lacune in alcune aree e per questo motivo rimangono indietro. Occorrono risorse e, in questo senso, un aumento di tasse che si trasformasse in una tassa di scopo, diretta cioè a finanziare tali attività avrebbe un particolare valore sociale. La carenza di patrimonio umano nel nostro Paese rappresenta un problema di crescente urgenza, perché se è vero che il Pil pro-capite è diminuito nel corso degli ultimi dieci anni, deve far riflettere il fatto che il Pil per anno d’istruzione degli occupati sia diminuito in misura ancor maggiore, sia per gli occupati italiani che per gli occupati immigrati, e una bassa produttività del patrimonio umano si rispecchia in un ristagno dei salari e dei redditi familiari. Per questo motivo è fondamentale che il tempo dedicato all’Università sia un tempo pieno, pienamente vissuto senza buchi, rallentamenti o interruzioni.