Covid-19. Se la scuola è «viralizzata» riscopra i diritti pedagogici
Nel corso dell’Ottocento, quando i Paesi occidentali si sono progressivamente dotati di sistemi scolastici pubblici (con modelli diversi di protagonismo statale o di decentramento), la Scuola ha assunto una sua religiosità civile, quasi come una Chiesa sui generis , con cadenze simili: banchi di scuola/banchi di chiesa; cattedra dell’insegnante/cattedra del vescovo; calendario scolastico/calendario liturgico; orario scolastico/liturgia delle ore; campanella/ campane. In contesti laicistici questa analogia fu giocata come alternativa ostile; nei contesti popolari di base, meno ideologizzati, come sussidiarietà reciproca di due grandi agenzie educative. E in effetti proprio la comune missione educativa (ancorché diversamente caratterizzata) dava sia alla Scuola sia alla Chiesa un presupposto comune di civiltà: l’umanesimo plenario, la dignitas humana , il servizio all’umanità e alla sua crescita. Insomma la centralità dell’essere umano in carne ed ossa: mente e corpo, natura e spirito.
La pandemia ha determinato uno stato di eccezionalità che ha comportato, per la Chiesa, una pastorale d’emergenza. E così pure, per la Scuola, si è resa necessaria una didattica d’emergenza. Una pastorale virtuale e una didattica virtuale. Con una non banale differenza: la Chiesa si è prevalentemente affidata alla televisione (i riti officiati dal Papa; la preghiera promossa dalla Cei e dai media di ispirazione cristiana; altri momenti di preghiera diocesani, ma diffusi da Tv2000 o da altre emittenti); la scuola si è finora prevalentemente affidata al web (che ha possibilità interattive). Così la Chiesa ha raggiunto (quasi) tutti i suoi fedeli che avessero voluto partecipare; la scuola ha raggiunto un 80% dei suoi studenti. Sembra tanto l’80%. In realtà significa che un quinto, il 20%, presumibilmente il più emarginato socialmente e geograficamente, cioè quella 'periferia digitale' che non ha computer o non ha connessione, è rimasto escluso.
E così la Repubblica, come ormai capita negli ultimi decenni di neoliberismo imperante (perfino in campo educativo e scolastico), non ha eliminato, ma rafforzato, gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando l’eguaglianza, impediscono un pieno e paritario sviluppo della persona umana. Il 16 aprile la ministra Azzolina ha annunciato un’alleanza potenziata Rai-Ministero e un palinsesto ad hoc . Si possono concedere le attenuanti della sorpresa e dell’urgenza: ma è strano che – pur citando molto Alberto Manzi – si sia fatto ricorso così in ritardo alla televisione, che arriva in pressoché tutte le case. È il caso di dire, comunque, ... non è mai troppo tardi!
In ogni caso, il 17 aprile, nella sua omelia nella Messa quotidiana a Santa Marta, papa Francesco ha ben chiarito che le modalità liturgiche a distanza, attraverso i mezzi di comunicazione sociale, sono un’emergenza legata «al momento difficile» e cioè una via «per uscire dal tunnel, non per rimanere così». E questo perché la Chiesa è «familiarità concreta». E, con uno dei suoi neologismi, Francesco ha concluso che non si può « viralizzare » la Chiesa. Una Chiesa tutta virtualizzata è una chiesa viralizzata: col- pita nel suo organismo. Ma – potremmo dire – lo stesso vale per la scuola: una scuola tutta virtualizzata è una scuola viralizzata: colpita nel suo organismo. Insomma, le modalità virtuali dell’emergenza hanno un carattere suppletivo e temporaneo, potranno anche rimanere poi in qualche forma particolare, subordinata e sussidiaria (come avviene nei corsi universitari): ma la scuola è comunità in presenza, è familiarità concreta, è didattica a km zero.
Insomma, se non vogliamo perdere il timbro umano e il fondamento umanistico di queste agenzie educative, non possiamo immaginare una permanente 'crisi della presenza' (che è sinonimo di lutto). Diverso, ovviamente, è il livello universitario, nel quale il web può servire per forme di humanitarian higher education, naturalmente con precise garanzie di qualità (e fatte salve le necessità laboratoriali o le specificità della formazione di educatori). Peraltro la pandemia ha rappresentato, in negativo, la rivincita brutale della corporeità naturale sul cyber-mondo artificiale e, in positivo, ci ha fatto apprezzare l’importanza e il dono del contatto umano diretto, del vissuto sociale concreto, a fronte della innaturale chiusura prolungata in residenzialità coatte che psicologicamente ci pesano come arresti domiciliari. Insomma è l’evidenza globale della necessità e superiorità dell’umanesimo plenario nella vita normale.
Per rimanere in ambito scolastico, bisogna rifuggire dagli opposti estremismi dei luddisti didattici e dei pasdaran fanatici della tecnologia: né digital-fobia né digital-mania. Ma non si possono confondere i mezzi con i fini, né la forma con i contenuti. Certo, sappiamo ormai tutti che – come ci ha insegnato, in anni lontani, il grande Marshall McLuhan – il medium è il messaggio. Ma appunto: la forma, il 'come' è sostanza. Io posso utilizzare la lavagna di ardesia o la LIM, ma quale sarà la 'forma' della mia azione didattica? I dispositivi che uso sono importanti e non sono tutti uguali (perché offrono possibilità diverse), ben vengano perciò dispositivi migliori. Ma, alla fine, resta il loro carattere strumentale. E la capacità del docente si misura soprattutto sulla sua preparazione e sulla qualità della sua didattica.
Vi è il diritto all’istruzione. Nessuno oggi lo nega. Ma vi sono – in una prospettiva umanistica universale – anche 'diritti pedagogici', che molti di fatto negano o perfino ignorano (analizzare il perché di questa ignoranza e dell’analfabetismo pedagogico, ancora tanto diffuso, ci porterebbe molto lontano). Non basta 'cosa' l’allievo impara, è importante 'come' lo impara. Se lo impara in una maniera mnemonica, astratta, passiva, come risultato di una fredda e apodittica trasmissione di nozioni, viene depauperato di un vissuto educativo importante che è un suo diritto: un diritto 'pedagogico'! E per rendere reale tale diritto, l’insegnante deve avere la possibilità di osservare direttamente l’allievo, di renderlo attivo nei processi di apprendimento, di motivarlo scoprendo e valorizzando le sue potenzialità o sostenendolo nelle sue difficoltà, di portarlo all’acquisizione di capacità cooperative e competenze sociali, di personalizzare l’offerta formativa, di suscitare e affinare il senso critico attraverso il dialogo. Se questi diritti pedagogici vengono riconosciuti, si usi pure tutta la strumentazione tecnologica utile a realizzarli. Certo la relazione umana, in presenza, non ne potrà mai uscire mortificata.
Infine, un ultimo punto importante. Si parla di riaprire le scuole cercando di garantire il 'distanziamento di sicurezza' tra gli alunni. Se si devono studiare accorgimenti (scaglionamenti, turnazioni, ecc.) è perché nei nostri edifici scolastici e nelle nostre aule viene spesso negato al singolo allievo il suo spazio didattico. È difficile, anzi impossibile, immaginare una didattica attiva in aule densamente o anche mediamente affollate. Questa è la frontiera qualitativa della scuola di domani: pochi alunni per classe. La necessità, in questo caso, potrà condurci a soluzioni migliori.
Pedagogista, Università di Modena e Reggio Emilia