Opinioni

Venezuela. Se la democrazia cade in pozzo di petrolio

Giorgio Ferrari giovedì 19 maggio 2016

Come era facile immaginare, il crepuscolo del presidente venezuelano Nicolás Maduro si consuma nel più prevedibile dei canovacci, l’unico evidentemente che ogni etnocaudillo che si rispetti, ogni populista che calchi il palcoscenico politico dell’America Latina sembra in grado di interpretare. Quello cioè del buon presidente accerchiato da forze ostili, tradito dai suoi compatrioti e dal Parlamento che gli impedisce di governare. Solitamente giunti al potere grazie a un consenso plebiscitario, i caudillos d’oggigiorno (si chiamino Chavez, Morales, Kirchner, e a loro modo anche Luiz Inácio Lula o Dilma Roussef, anche se i 'padri fondatori' rimangono sempre due, Juan Domingo Perón e Fidel Castro) tradiscono immediatamente – ma in questo hanno illustri colleghi ed emuli anche in Medio oriente – il vizietto di puntare a una ben precisa modifica delle rispettive Costituzioni: quella che assegnerebbe loro la possibilità di essere rieletti a vita.

Non va diversamente in queste ore a Caracas, dove s’inasprisce il braccio di ferro fra il Parlamento guidato dall’opposizione e il presidente, che lunedì ha prorogato lo stato d’emergenza. Nel mirino di Maduro ci sono tutti: parlamentari infedeli, oppositori politici (il sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, rischia 26 anni di carcere per tradimento, il leader dell’opposizione Leopoldo López è stato condannato a 13 anni e 9 mesi per incitazione all’odio e alla violenza), imprenditori (questi ultimi accusati di sabotare il Paese perché hanno chiuso le fabbriche), social network (fra gli hastag più cliccati spicca #MaduroEsOscuridad, riferito ai continui black out), e naturalmente l’America, la lobby di Washington che preme ai confini e prepara l’invasione. Il golpe, insomma, un altro classico del repertorio dei caudillos.

La realtà mostra viceversa il volto di una crisi economica e sociale senza precedenti, con un’iperinflazione che secondo il Fmi dal 2015 a oggi ha toccato il 700% mentre il Pil registra una caduta del 5,7%. A ciò si aggiunge una crisi energetica endemica, il tracollo delle rendite petrolifere che fino a quando il prezzo del greggio stava tra i 100 e gli 80 dollari consentivano a Maduro – come a Chavez prima di lui – di organizzare il consenso grazie a pesanti sussidi per le classi meno abbienti. Oggi invece si sono ridotte al lumicino le risorse nazionali e il Paese patisce una diffusa penuria di generi alimentari e di beni di prima necessità cui ha subito corrisposto (ove mai ve ne fosse stato bisogno) un aumento vertiginoso di corruzione e microcriminalità. Bilancio ufficiale, 27.875 omicidi nel 2015, oltre 250mila dal 1999. No hay luz, scrivono sui muri gli oppositori di Maduro che sfilano per le strade di Caracas. Uno slogan che dice molto di più di quel che sembra: da tempo reclamano un referendum con cui revocargli il mandato. Per tutta risposta il caudillo schiera l’esercito e le forze di sicurezza.

Quanto può reggere una simile situazione? Sconcerta pensare che benché il Venezuela possegga i più grandi giacimenti di greggio del mondo attualmente lo stipendio minimo garantito non superi i 15mila Bolivares Fuertes mensili (ovvero 15 dollari): eppure un chilo di patate ne costa 1.200 e un paio di jeans un milione. Altri beni di prima necessità sono introvabili e praticamente non hanno prezzo. Così pure gli ospedali sono al collasso per mancanza di medicinali e la settimana lavorativa del pubblico impiego è stata ridotta a due soli giorni. Su un punto Maduro dice il vero: a flagellare la già periclitante rete energetica venezuelana ci si è messa anche la siccità provocata dal famigerato El Niño, che ha reso pressocché inutilizzabile la centrale idroelettrica di Guri che fornisce il 70% dell’energia al Paese.

Durerà ancora, il caudillo? O segnerà la fine del sogno bolivarista, di quel socialismo chavista che puntava tutto su una grande rete di sussistenza pubblica finanziata da un’unica risorsa, quella petrolifera e che ora – come già a Cuba – è costretto a fare i conti con le ciniche leggi del mercato? Quale che ne sia l’esito, una lezione possiamo trarla: il consenso non si compra con le sole royalties del petrolio. Ci vuol altro, per chiamarla democrazia.