Se l'Unione si riaccende. Asse francotedesco, nostri conti e doveri
Il traguardo è lontano e ci sono ancora salite da affrontare, sperando che siano le meno impegnative possibili. Ma il segnale lanciato lunedì dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron è potente e inequivocabile. Potrebbe essere la scintilla di riaccensione di una passione forse sopita da tante delusioni, sbiadita dal tempo, soffocata dai troppi cavilli e zerovirgola accumulati a pacchetti e infilati in un Patto di stabilità: la passione europeista esplosa giusto 70 anni fa nella Dichiarazione Schuman condivisa da Adenauer e De Gasperi e, prima ancora, nel Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni. L’Unione Europea sta cercando di dire, finalmente, che c’è, che esiste e che vuole continuare a esistere. In quanto Unione, non solo come somma di singoli Stati. E pazienza se l’iniziativa parte proprio dai due governi nazionali più influenti e spesso (non sempre a torto) accusati di condizionare le decisioni di Bruxelles. Sembra una contraddizione, ma potrebbe essere invece la prima pedalata di una corsa nuova, perché la novità – oltre che nella svolta della politica fin qui tenuta da Berlino – sta nel contenuto del Recovery Fund ipotizzato: nessuna imposizione, niente condizioni capestro, ma 500 miliardi di 'trasferimenti' garantiti dal bilancio Ue a partire da quest’anno.
Di quegli euro da non restituire, è stato calcolato che circa 100 miliardi (lordi, circa 45 netti) potrebbero finire all’Italia. Il nostro premier ha fatto filtrare un commento a caldo più che prudente: «È un punto di partenza». Atteggiamento, quello di Giuseppe Conte, giustificato dalle molte incognite ancora sul tappeto e dall’ovvia necessità politica di non scoprire subito tutte le carte. Legittimo anche aspettarsi o cercare di ottenere di più, sempre stando attenti a non tirare troppo la corda, memori dei nostri trascorsi niente affatto virtuosi sul fronte del debito pubblico.
Ma se l’operazione andasse in porto, anche in questi termini, ci sarebbe ben poco di cui lamentarsi: 100 miliardi sono più di quanto finora Roma ha impegnato (a debito) nelle manovre imposte dall’emergenza coronavirus, ovvero i 25 miliardi del 'decreto marzo' e i 55 del 'decreto rilancio', ai quali vanno aggiunti – appunto – altri 20 annunciati dalla viceministra dell’Economia Laura Castelli in un’intervista proprio ad 'Avvenire'.
Banalmente, in termini di contabilità significherebbe che, al netto, almeno la metà delle manovre dopo-pandemia sarebbe finanziata dalla Ue. In più, vanno considerati gli altri strumenti europei già messi in campo. Mes leggero per le spese sanitarie dirette e indirette incluso, se necessario. Ma soprattutto il Sure antidisoccupazione e il maxipiano di acquisti della Bce, confermato ieri dalla presidente Christine Lagarde.
Certo, da parte italiana sarebbe importante dimostrare ai partner europei di non voler continuare a fare 'come prima'. E sarebbe essenziale che la Commissione seguisse la strada indicata da Germania e Francia. I falchi si sono già alzati in volo e sono pronti a colpire, tuttavia ieri hanno ricevuto una prima risposta dal vicepresidente Valdis Dombrovskis, non esattamente un profilo da colomba, che li ha richiamati alla «solidarietà europea». Il resto è tutto da costruire. Lo stesso Dombrovskis ha ipotizzato una cifra doppia per il Fondo (1.000 miliardi), che però in quelle dimensioni ingloberebbe anche una quota di prestiti.
Insomma, la partita è ancora da giocare ma il risultato può essere favorevole. In primo luogo per l’Unione, che ne uscirebbe rilanciata agli occhi dei suoi componenti e del resto del mondo. Il nostro Paese ha un ruolo delicato da interpretare, ma per il momento ha già dimostrato che nelle dinamiche comunitarie il dialogo e la pazienza hanno buone opportunità di riuscita laddove i denti scoperti e i proclami nazional-populisti, puntualmente e inevitabilmente, sono destinati a fallire. E a costare cari in termini di soldi e credibilità.