Se l'Italia chiude la fabbrica di futuro e mantiene aperte le fabbriche di armi
Gentile direttore,
compro Avvenire tutti i giorni e mi sono abituato a leggere i numerosi articoli di «pedagogisti, psicologi e psichiatri sulle conseguenze disastrose che queste limitazioni (anti Covid, ndr) stanno avendo per le nuove generazioni». Privilegiare l’informazione su questo settore è una sua scelta, direttore. La accetto, anche se non la devo per forza condividere. Ma l’articolo di don Nava mi è sembrato passare un po’ troppo il segno. Posso capire le difficoltà di un responsabile di una scuola, ma frasi del tipo «hanno già più volte dimostrato che a loro della scuola e ancor più dei ragazzi e delle ragazze, dei nostri giovani, interessa meno di niente» dimostrano una forte passione, ma anche l’incapacità di vedere altro al di là del proprio settore. Tutta la popolazione, ognuno a suo modo, soffre per questa pandemia. La ristorazione, il turismo, lo spettacolo, lo sport... Ognuno di questi settori è convinto di essere dimenticato, ognuno afferma che no, non è lì, non in palestra, non al cinema, non al museo... che si prende il contagio. Il cattivo è sempre un altro. Non ho più, per fortuna, funzioni pubbliche. E ringrazio Dio che non tocca a me prendere decisioni, perché sono tutte decisioni difficili, prese in una situazione della quale nessuno ha esperienza e che è in continua mutazione. Ormai viaggiamo con il ritmo di 300 morti al giorno, ci si fa l’abitudine, perché sono soprattutto vecchi e hanno già almeno un paio di patologie, tanto di guadagnato per le giovani generazioni. Ecco, sto scivolando anch’io nell’essere di parte... Mi scusi per lo sfogo.
Lei, gentile amico, è molto lucido e appassionato nella sua argomentazione. Proprio come lo è stato don Nava, salesiano “in prima linea scolastica”, nella pubblica riflessione che ha sviluppato nella lettera pubblicata come “Scripta manent” su “Avvenire” di mercoledì 10 marzo 2021. La vede diversamente da lui, e la vede diversamente da me. E per prima cosa desidero dirle che apprezzo davvero il suo sforzo per «non essere di parte». Ma vorrei insistere su un punto: la “parte” dei nostri figli e nipoti e della loro formazione non è per nessuno una “controparte”, perché è semplicemente la parte del nostro futuro. Voglio dire che essa non è e – a mio parere – non dev’essere assimilata a un “settore”, a questa o quella categoria o corporazione. E la tenacia con cui noi di “Avvenire” continuiamo a documentare i danni inferti a scolari e studenti e alle loro famiglie dall’attuale situazione è frutto di un’amara consapevolezza: a ogni rincrudire della pandemia, la Scuola è la prima a essere limitata e l’ultima a essere riaperta. Certo, la dedizione di tanti insegnanti nel condurre la migliore didattica a distanza (Dad) possibile è encomiabile e feconda, ma i nodi dolorosi ci sono, e sono tanti, troppi, per problemi tecnici (il cosiddetto digital divide) e personali degli allievi. Qualche “ragazzino” (assieme a non pochi “ragazzoni” tra i trenta e i quarant’anni) ha certamente fatto anche cose imprudenti e sbagliate, ma un enorme numero di studenti italiani di normalissima e coscienziosa buona volontà non ha affatto bisogno di giustificarsi e di essere “perdonato” per assembramenti scriteriati e contagiosi.
Insomma, come ho detto e scritto più volte in questi lunghi mesi pandemici, mi chiedo che cosa stia facendo e che messaggio continui a mandare ai suoi cittadini, in particolare dai più giovani, uno Stato che chiude quella “straordinaria fabbrica di futuro” che è la scuola mentre tiene aperte le fabbriche di armi. Per quanto mi riguarda, sospendere totalmente le lezioni “in presenza” è una gravissima extrema ratio, una misura eccezionale a cui purtroppo si è fatto, e si continua a fare, ricorso in modo sistematico, anche quando non risultava oggettivamente necessaria. Cosicché, se e quando la situazione lo richiede davvero (e potrebbe essere il caso proprio ora, mentre si sta alzando una forte “terza ondata” di Covid-19 resa più pericolosa, come tutti ormai sappiamo, dalla cosiddetta variante inglese), la “medicina” usata è così abusata da provocare reazioni allergiche di studenti e insegnanti e da non fare nessun vero bene. Fuor di metafora, la scuola come grande e permanente esercitazione di distanziamento fisico (ed educativo e, stavolta sì, anche sociale) non è la soluzione, ma è un problema che ne sta generando altri. Prima ce ne rendiamo conto e cambiamo registro, meglio è.