Opinioni

Esito agghiacciante dai quattro giovani incendiari. Se l'altro non è riconosciuto come uguale a se stessi

Marina Corradi martedì 25 novembre 2008
Sono ragazzi "normali". Uno studente, un perito chimico, un elettricista e un barista fra i diciotto e i diciannove anni, incensurati. Benestanti, abitanti in famiglia, le facce degli adolescenti con cui lasceresti uscire una figlia. Quattro ragazzi normali hanno confessato di avere dato alle fiamme quindici giorni fa, a Rimini, un clochard addormentato sulla sua panchina. «Lo abbiamo fatto " hanno detto " per gioco». Per gioco, ma con la lucidità di andare a riempire la tanica nell'unico distributore di Rimini che non ha telecamere. Con la improntitudine di tornare sul posto, un'ora dopo, per assistere a quel gran via vai di sirene e poliziotti, nell'acre odore di fumo; per dirsi fra sé, soddisfatti: guarda, di cosa siamo stati capaci. Si farà un processo, e magari un difensore tenterà, come accade quando non ci sono altre strade per il suo assistito, la carta dell'infermità mentale. Si faranno, forse, le perizie. E quanto vorremmo in fondo che gli psichiatri trovassero in questi quattro tracce di una malattia mentale, una qualsiasi, pur di potere dire che lo studente, il barista e i loro amici in realtà "normali" non erano. Ma se, anche a causa di quella fredda regia dell'aggressione, i medici non riusciranno a trovare nulla di anomalo, allora bisognerà convenire che a bruciare un uomo come si brucia un bidone sono stati proprio quattro ragazzi "normali". Cioè a dire che in una agiata città di provincia italiana, nel 2008, quattro adolescenti tranquilli possono cercare, in una sera di noia, di ammazzare un poveraccio per diletto. Nemmeno per una perversa ragione ideologica che, pure sordida, indicherebbe almeno una consapevole scelta per il male. Per il puro nulla, invece; così, non sapendo che fare, e sognando l'ebbrezza dei titoli sui giornali. Semplicemente per gioco. Di tutte le ragioni possibili, la peggiore. Perché significa che quel clochard non era, agli occhi della banda, nemmeno un uomo. Non si dà alle fiamme un uomo per divertirsi. In realtà, prima di arrivare con la tanica, quei ragazzi il clochard sulla panchina lo avevano già annientato nei loro pensieri; trasformato in una cosa; in quella faccia, non riconoscevano più in alcun modo un proprio simile. Bisognerà però chiedersi, se gli amici di Rimini risulteranno psicologicamente "normali", quale "normalità" consenta un gesto simile. Bruciare, cercare di uccidere è un gesto criminale e grazie a Dio non frequente. Ma quello che in questa storia viene prima, e cioè quello sguardo annichilente su un prossimo non più riconosciuto come uguale a sé, questo sguardo, siamo sicuri che oggi sia altrettanto raro? Quella "normalità" che spesso ci viene ripetuta nel definire, fino al giorno prima, protagonisti di violenze gratuite, di aggressioni a handicappati o stranieri, o di stupri di gruppo di compagne bambine, non allude forse a una incapacità di riconoscere l'altro come persona, forse più ampia e diffusa dei casi che poi tragicamente esplodono nella cronaca? Bravi ragazzi, lavoratori, incensurati, sentiamo ripetere come una litania, e però capaci di ferocia, per divertirsi. In quale vuoto, in quale educazione al nulla cresce questo male "normale"? Qualcosa di fondamentale, in un'abbondanza e accessibilità di informazioni senza precedenti nella storia, sembra mancare ad alcuni, e scoppia qui e là tra paesi e città, come buchi neri nel comune sentire. Che cos'è un uomo, e chi c'è dietro al volto di ognuno, è coscienza per qualcuno perduta, memoria colmata dal nulla.