Se in una domenica di giugno echeggia persino in parrocchia l'insulto razzista
Caro direttore,
è domenica, una domenica di metà giugno in una parrocchia romana. Con la festività di Pentecoste l’anno pastorale 'tradizionale' si avvia a conclusione e stanno per iniziare le attività estive, dedicate ai più giovani, con baricentro l’oratorio. Una giornata di festa che prevede un pranzo comunitario, dove un gruppo di cuochi e di giovani servirà ai partecipanti un pranzo saporito e ben curato, organizzato anche per raccogliere quanto serve a supportare le opere parrocchiali. Tutto si svolge nel migliore dei modi, con l’impegno e l’entusiasmo di tutti, fino a una certa ora del pomeriggio. Dopo aver lavato le pentole e rassettato la cucina, i ragazzi iniziano a smontare le attrezzature che avevano diffuso la musica per tutta la giornata. A questo punto, un paio di genitori iniziano a pretendere che l’accompagnamento musicale continui. Si rivolgono a un ragazzo di origine cinese (della parrocchia) che stava smontando le apparecchiature. Questi, avendo ricevuto una precisa indicazione, dice civilmente che si deve chiudere e prosegue nel suo lavoro. I due intervengono energicamente sul ragazzo per impedire che la musica si interrompa, argomentando con un «cinese di m...a». Tra le tante presenti, solo una persona interviene per riprendere i due maleducati, che si allontanano assieme ai figli con espressioni e modi coerenti con quanto appena accaduto. L’«emergenza educativa» tanto sottolineata dalla Chiesa italiana in questi anni sta evidentemente assumendo proporzioni preoccupanti, non confinate alle giovani generazioni. È compresa la dimensione del razzismo, e per arginarla non bastano più gli incessanti appelli di papa Francesco. Lei lo ha scritto più volte: chi un tempo si vergognava a dire – o anche solo a pensare – certe cose, ora non si vergogna più...
Un piccolo fatto, un problema che rischia di farsi sempre più grande. Come tutto ciò che si finge di non vedere oppure si vede benissimo, ma si fa di tutto per non ammettere che ci sia. Lei non ha paura di chiamare il problema con il suo nome, 'razzismo'. Un razzismo strisciante, banale e triviale. Strisciante persino fin dentro i confini di un 'recinto' sicuro, aperto e fraterno come non può che essere quello di una parrocchia della nostra Italia. Banale come i pretesti che portano a manifestarlo, come una musica che per qualcuno sta finendo troppo presto. Triviale non solo per le espressioni che usa, ma per la bassezza dei 'pensieri' ( absit iniuria verbis!) che esprime, comunque e sempre zavorrati di beota o maligna arroganza. Non c’è altra strada che educare di nuovo le persone a provare almeno vergogna a usare o anche solo a concepire certe parole e certe frasi. Anche in parrocchia, casomai ci si fosse distratti o fatti abbindolare dalle nenie del 'prossimo tuo che vuol dire quelli come te'... Ogni essere umano è come me. È dura la lotta con i seminatori digitali e televisivi di volgarità xenofobe e razziste, e si fa addirittura improba con coloro che accarezzano le teste calde e le bocche sgangherate assicurando, con ruvidezza, che il problema sono invece gli orecchi magari «élitari» (nuova parola magica azzitta-tutti) e ovviamente «prevenuti» di chi ascolta, s’indigna e non acconsente davanti a questa deriva cattiva. Ma è una pacifica e pacificante lotta d’idee e di umanità alla quale non ci si può sottrarre. Alla quale nessuno può sottrarsi, soprattutto chi ha una qualche responsabilità. Se troppi cominciano a non avere più vergogna, bisogna avere coraggio. Mite e saldo come il suo, caro amico. Credo, infatti, che sia stato lei a non girare la testa dall’altra parte e a trovare le parole giuste. Proprio così, occorre il mite coraggio di chi non si accoda e non si fa timido. Sì, ci vuole lucidità e coraggio. Cioè cuore e ragione. Cioè cristiana speranza, e civile tenacia. Lei ha intitolato le sue righe 'lettera di un padre'. Grazie anche per questo. È di padri veri che abbiamo più che mai bisogno, e di vere madri. Gente che sa formare alla vita, e a ciò che alla vita di tutti dà senso, bellezza, pulizia.