Qual è il giusto costo di un farmaco? Con quali criteri lo si stabilisce? E cosa pensare a proposito del fatto che la stessa molecola viene venduta dall’azienda produttrice a prezzi assai differenti in diverse parti del mondo? Sono queste le domande che si pongono oggi i responsabili della sanità pubblica e i membri della comunità scientifica dopo la recente commercializzazione dei nuovi farmaci contro l’epatite C. «Noi abbiamo ottenuto dal produttore il prezzo medio largamente più basso in Europa», ha recentemente dichiarato
Luca Pani, direttore dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), a proposito del sofosbuvir (nome commerciale Sovaldi), l’innovativo antivirale in grado di curare l’epatite C con un successo superiore al 90 per cento. Il costo di un ciclo medio di terapia – che può durare tra le 12 e le 24 settimane a seconda della variante genetica del virus all’origine di questa infezione – oscilla tra i 37mila e i 45mila euro. Un costo molto elevato, ma comunque minore degli 84mila dollari richiesti per la stessa cura negli Stati Uniti. Gilead Science, l’azienda produttrice, ha però offerto il nuovo farmaco antiepatite C all’Egitto con uno sconto del 98 per cento rispetto a quello statunitense, circa 900 dollari a trattamento. Non solo. In India, dove la stessa ditta ha concesso la licenza di produzione alle industrie di medicinali generici, il prezzo risulta ancora minore: una compressa costa solo un euro, un rapporto di 1 a 1.000! Perché questa enorme diversità? Lo paghiamo troppo noi o lo pagano troppo poco gli altri? Sovaldi è l’avanguardia di una serie di nuovi farmaci che potrebbero curare, se non addirittura eradicare completamente, la malattia che distrugge il fegato di milioni di persone in tutto il mondo. Diverse altre molecole simili alla precedente (simeprevir, daclatasivir, ledipasvir, ombitasvir, dasabuvir) sono già pronte per essere utilizzate nella cura dell’epatite C. Ma questo potrà avvenire solo se queste nuove terapie saranno sufficientemente convenienti da permetterne un uso ampiamente diffuso. In nessun luogo il problema è più acuto che in Egitto e in India, dove si registra la più alta diffusione del virus al mondo, conseguente all’utilizzo di aghi mal sterilizzati (una della maggiori vie di diffusione ematica dell’epatite C). La ditta produttrice ritiene che l’accordo per l’introduzione a prezzo sostenibile di questo rivoluzionario farmaco in Egitto e in India potrà avere un enorme e benefico impatto sulla salute pubblica di questi paesi. Per questo, essa sostiene, ha concesso a prezzi così contenuti l’utilizzo del suo farmaco. In tal modo viene scongiurato il rischio di un divario abissale tra l’accesso alle cure per i pazienti dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri, evitando così quanto era già successo in Africa più di un decennio fa a proposito dei farmaci per la cura dell’Aids. Un lodevole proposito, in grado di conciliare l’esigenza dei malati, che ovunque si trovino devono poter accedere alle cure efficaci disponibili, con quello dell’industria farmaceutica, che pure deve perseguire dalla vendita dei suoi prodotti un lecito e adeguato guadagno in grado di sostenere l’innovazione. In questa prospettiva può appare comprensibile anche la strategia del “prezzo elastico” che prevede un costo maggiore per i paesi più ricchi e uno minore per quelli più poveri, quasi che i prezzi elevati dei primi possano in qualche modo compensare quelli ridotti dei secondi. In questa logica il costo applicato negli Stati Uniti, in Canada e in Europa è congruo oppure di fatto eccessivo e non completamente giustificato? Anche se il valore di un farmaco non è mai solo quello della sua mera produzione, tuttavia devono essere ben comprensibili i meccanismi che portano alla definizione del prezzo finale, tenendo conto degli investimenti in sviluppo clinico, delle spese legate alle sperimentazioni e anche della ragionevole e necessaria protezione brevettuale. Nel caso della nuova molecola contro l’epatite C sono sorti multi dubbi in proposito. Dato l’impatto che il costo ha sulla sanità pubblica occorre capire esattamente come l’azienda sia giunta a definire il prezzo, perché esso sembra più elevato di quello prevedibile anche rispetto ai criteri prima elencati. Se il costo applicato in Egitto e in India è sottostimato per una “giusta causa”, quello praticato nei Paesi nordamericani e in Europa appare decisamente sovrastimato in nome di una miope logica di profitto. Perché funzioni correttamente il mercato deve essere competitivo, equo e trasparente. A chi giovano prezzi così elevati? A nessuno. In prospettiva potranno danneggiare anche le stesse industrie farmaceutiche, perché in tal modo esse avranno sempre meno mercato per i loro prodotti. Se per un nuovo farmaco viene fissato un prezzo troppo basso, che ripaga solo i costi delle materie prime o poco più, si rischia di penalizzare la ricerca di una vera innovazione. Ma se viceversa esso è troppo alto, questa spesa diventerà in breve tempo insostenibile dalla sanità pubblica. Se il complesso delle grandi industrie farmaceutiche punta solo alla logica del profitto esasperato, ignorando e violando le stesse regole commerciali, alla lunga danneggia se stesso oltre che quelle fasce di malati che non potranno accedere a terapie troppo costose. Nonostante le buone condizioni economiche ottenute dall’Aifa per l’acquisto del nuovo farmaco antiepatite, proprio in Italia stanno emergendo, in questi ultimi mesi, le contraddizioni legate al suo elevato costo. Nel nostro Paese, come denuncia Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato, emerge una grande sperequazione regionale. Dei 50mila malati gravi con epatite C che rientrano nei criteri stabiliti dall’Agenzia italiana per la cura con i nuovi farmaci in grado di eradicare l’infezione, solo 10mila sono stati trattati, a causa dell’indisponibilità economica da parte di molte regioni che stanno ancora attendendo i fondi stanziati dal Ministero della salute per gli anni 2015 e 2016, un miliardo per tutti i farmaci innovativi, compresi quelli contro l’epatite C. Una situazione assurda e intollerabile, nei confronti della quale è stato chiesto l’intervento del Comitato Nazionale di Bioetica. Il problema del prezzo dei farmaci è un discorso complesso e articolato, tornato di grande attualità in relazione agli elevati costi dei nuovi farmaci contro l’epatite e degli ultimi antitumorali individualizzati. Avere dati precisi sulle modalità con cui l’industria determina il costo di un nuovo farmaco e rendere trasparente il processo di contrattazione del prezzo tra fabbricante e acquirente rappresentano due passaggi indispensabili per la ricerca di un equilibrio tra etica del profitto, innovazione farmaceutica e sostenibilità sanitaria. Solo in tal modo sarà possibile salvaguardare i legittimi diritti commerciali ed economici dell’industria e le altrettanto giuste aspettative mediche e sanitarie del malato, evitando così il rischio di determinare conflitti di interesse, di scatenare il collasso della sanità pubblica e di introdurre intollerabili e immorali criteri discriminatori nella scelta dei pazienti da curare.