Giù le mani dalla Superprocura. Se il bersaglio è la mela buona
Abolire la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo sarebbe un clamoroso regalo alle mafie e a chi con queste fa affari. Diciamolo subito, in premessa. L’idea, rilanciata da importanti commentatori, si inserisce nella ridda di dichiarazioni che hanno fatto seguito alle indagini della Procura della Repubblica di Perugia sugli accessi abusivi alle banche dati degli uffici di via Giulia. E al dossieraggio inaccettabile. Come troppo spesso accade in questo Paese, quando in un cesto di mele ne viene trovata una bacata, si diffonde l’idea di buttarle via tutte, anche quelle buone. Tesi folle che trova applicazione nella rinunciataria considerazione per la quale, siccome una (mela, seguendo la metafora) è stata contaminata, per prevenire che possa riaccadere, vanno buttate tutte. E magari anche il cestino. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere. Roba da fare stropicciare gli occhi a qualsiasi odierno mafioso, molto meno con le “armi in pugno” e molto più nella cosiddetta “zona grigia”, quella dei colletti bianchi, quella del “mondo di sopra” che costruisce alleanze per denaro e per potere. L’attuale Procuratore nazionale Giovanni Melillo, audito in Commissione antimafia, ne ha dimostrato l’importanza e, sul punto, non ha trattenuto un giusto moto di stizza: «Farei volentieri altro nella vita se non fosse ancora necessario questo servizio di coordinamento e di impulso».
Allora, probabilmente, appare fondamentale rileggere la genesi della “Superprocura” come la chiamava il “padre”: Giovanni Falcone. Tra le tante sue intuizioni quella (probabilmente) più importante è proprio la “Superprocura”, poi ribattezzata in Procura nazionale antimafia (a cui, negli anni, si è aggiunto anche il termine e la competenza “antiterrorismo”). Lui che aveva toccato con mano l’importanza del “pool” antimafia palermitano, voleva rispecchiarne l’azione sinergica non solo tra i pm di una singola procura, ma tra tutte le procure. Per favorire la conoscenza delle mafie e la circolarità delle informazioni. Il principio da cui Falcone partiva era quello di «fronteggiare le organizzazioni criminali attraverso l’organizzazione delle indagini» – per usare le sue parole –, evitando che i fascicoli si disperdessero tra procure diverse, tra mille rivoli d’indagini che andavano sistematicamente al macero. Il nocciolo della questione stava proprio nell’importanza del quadro globale degli elementi d’indagine raccolti e nell’impossibilità della loro comprensione senza la complessità d’insieme.
Le cosche, abituate a muoversi e a fare affari “in sede transnazionale”, non potevano essere contrastate con la frantumazione delle competenze e senza coordinamento investigativo. L’avvio, successivo alla sua tragica morte, del lavoro della Procura nazionale e delle procure distrettuali fu il compimento della sua idea. Prevenzione, centralizzata e specializzata, è il cuore della strategia contro mafie corruzione e riciclaggio. Non a caso si attacca spesso la legislazione antimafia fatta con il sangue di chi, oggi, non c’è più. E lo si fa partendo dal tentativo di scardinare il “doppio binario” (carcere duro ed ergastolo ostativo), fino alle picconate alle fondamentali misure di prevenzione patrimoniali. Oggi il bersaglio è grosso molto più che simbolico: l’abolizione della Procura nazionale. Ma sì, aboliamo la “Superprocura” di falconiana intuizione, tanto per certa vulgata le mafie non sono più un problema. Come se fossero state sconfitte, come se bastasse commemorarli, quei “morti ammazzati”, solo con la figurina del ricordo nel giorno dell’eccidio. Chapeau, avrebbero vinto loro. E stavolta senza sparare.