Opinioni

Editoriale. Se i sauditi hanno le mani legate

Eleonora Ardemagni lunedì 14 ottobre 2024

Un anno dopo il 7 ottobre, l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman si trova nel mezzo di un labirinto politico di cui non si scorge l’uscita. Le due trattative di pace, tra loro molto diverse, a cui Riyadh stava lavorando prima di quel massacro sono infatti bloccate. La prima pace, ovvero la normalizzazione diplomatica con Israele, ancora non c’è e non potrà esserci fino a quando non vi sarà un cessate il fuoco a Gaza e, adesso, anche con Hezbollah in Libano. Insieme a un piano credibile per la costruzione di uno Stato palestinese. La seconda pace, quella con gli houthi in Yemen, con i quali i sauditi hanno aperto una trattativa nel 2022 dopo anni di bombardamenti, non tornerà sul tavolo fino a quando il movimento sostenuto dall’Iran non smetterà di attaccare le navi commerciali nel Mar Rosso e il territorio israeliano. Uno scenario ulteriormente complicato, adesso, dal fatto che gli attacchi degli houthi hanno ormai intersecato due guerre, Gaza e Yemen, distinte e distanti per cause e geografia. Un brutto quadro per Riyadh e per le sue ambizioni di potenza regionale. Ambizioni, tra l’altro, legate a doppio filo agli sforzi interni per diversificare l’economia dal petrolio, con riforme e investimenti che necessitano di un Medio Oriente stabile. E non di una regione che rischia la guerra diretta fra Iran e Israele.
Per l’Arabia Saudita, normalizzare le relazioni con Israele rimane un obiettivo strategico. Il problema sono i tempi, che in politica sono (quasi) tutto e che ora non sono quelli giusti. Perché i sauditi hanno anche un altro assillo: mantenere il dialogo con l’Iran, ricominciato nel 2023, per provare a sigillare il Golfo dalle scosse regionali.
Un’interlocuzione che fin qui ha tenuto e non era affatto scontato. Tuttavia, nel labirinto politico in cui Mohammed bin Salman si trova dopo il 7 ottobre, la normalizzazione strategica con Israele e il buon vicinato con l’Iran conducono in due direzioni mai così opposte. Soprattutto, il rischio per Riyadh e per le monarchie arabo sunnite del Golfo è quello di rimanere intrappolate nel confronto ´a somma zero`, vittoria o sconfitta, tra Iran e Israele. In questi giorni di attesa, la parola d’ordine diventa allora neutralità e gli incontri si fanno assidui: il principe ereditario saudita ha ricevuto il ministro degli esteri iraniano a Riyadh, dopo che il capo della diplomazia dell’Arabia Saudita aveva incontrato il presidente iraniano in Qatar per un bilaterale.
A ben guardare, però, il “nuovo ordine” (come l’esercito israeliano ha chiamato l’operazione che ha ucciso il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah) che il governo di Israele immagina per il Medio Oriente piace anche alla leadership dell’Arabia Saudita. Infatti, l’indebolimento dell’Iran e del cosiddetto asse della resistenza filo-iraniano a Gaza, in Libano, nello Yemen va anche nell’interesse saudita, con il regno che vedrebbe di buon occhio un Iran meno influente e destabilizzante fra Mediterraneo e Mar Rosso.
Con la differenza che Riyadh, adesso, non può più politicamente permettersi di tralasciare un pezzo della storia, il tassello che invece manca al discorso del premier israeliano: la creazione di uno stato palestinese. Ecco perché i sauditi stanno accelerando le iniziative internazionali in questa direzione, insieme ad altri stati arabi e ad alcuni paesi europei. Con lo scopo, intanto, di intestarsi (tardivamente) questo dossier e posizionarsi tra Iran e Israele.
Anche Mohammed bin Salman attende il risultato delle elezioni americane del 5 novembre. Un verdetto che avrà un impatto sul Medio Oriente e sulle sue crisi pur sapendo che, vinca Harris o Trump, a salvare la regione dal baratro della guerra fra stati dovranno essere gli attori della regione stessa. L’Arabia Saudita sembra pronta a fare la sua parte pur di difendere le proprie ambizioni economiche e geopolitiche. Provando così a uscire da un labirinto sempre più stretto.