Anche di fronte alla tragedia della «Mavi Marmara» viene riconfermata quella che si può definire l’unicità di Israele nello scenario internazionale. Il blitz sanguinoso contro la nave che voleva forzare il blocco di Gaza ha riportato alla ribalta l’"impossibilità" per lo Stato ebraico di essere un attore «normale» delle relazioni tra Paesi e popoli. Un’impossibilità drammatica, oggettiva e soggettiva. Un’impossibilità oggettiva perché Israele è probabilmente l’unico Paese che non solo è nel mirino dei terroristi e minacciato militarmente da Stati sovrani (come accade ad altri nel mondo), ma è anche tanto odiato da avere incombente la promessa di leader fanatici di cancellarne la presenza dalle carte geografiche. Senza poi dimenticare che l’antisionismo che colpisce l’entità politica si salda all’antisemitismo che s’abbatte sugli ebrei in quanto tali, con la loro fede e la loro cultura. E quindi non è consentito a chi vive "circondato" di abbassare la guardia e sottovalutare qualsiasi potenziale pericolo.Un’impossibilità soggettiva, poi, perché la coscienza della propria storia recente, a sua volta tragicamente eccezionale, e della propria situazione attuale ha reso i governanti e i generali di Israele (spesso i secondi diventati i primi) determinati a conservare quell’unicità come condizione permanente e
modus operandi, funzionali al proprio scopo primario, quello della sicurezza.Tutto ciò crea di riflesso una sorta di moltiplicatore negli atteggiamenti e nelle scelte di tutti coloro che si trovano a interagire con Israele. Come se gli "amici" non potessero che manifestare sempre iper-indulgenza, anche di fronte a una vicenda in cui il torto sembra stare dalla parte di Tel Aviv, e coloro che "amici" non sono dovessero necessariamente preferire dittatori alla democrazia ebraica e attribuire a essa ogni nefandezza. Con Israele, in altre parole, tutto risulta bianco o nero, senza sfumature, mezze tinte o zone d’ombra. Una situazione che finisce con il danneggiare anche la Stato della stella di Davide.Il muro in Cisgiordania, ad esempio, è stato difeso come un argine obbligato agli attacchi dei kamikaze (e in effetti ha funzionato egregiamente), oppure attaccato come un’intollerabile violazione dei diritti degli abitanti, mentre pochi, da una parte e dall’altra, hanno ammesso che il legittimo strumento di protezione produce anche spiacevoli effetti collaterali o che la dolorosa erezione di barriere aveva una reale motivazione cui i palestinesi non sono estranei.Lo stesso si può dire dell’accerchiamento di Gaza, dove è in corso un’innegabile emergenza umanitaria, ma dove pure i miliziani continuano ad ammassare razzi da sparare sui civili oltreconfine. Quello che l’"unicità" di Israele limita fortemente è la valutazione della proporzionalità di ogni singola azione. Per questo sarebbe auspicabile una vera inchiesta internazionale sui fatti di lunedì. Non è darla vinta ai "nemici" di Tel Aviv auspicare che si faccia chiarezza sull’uccisione di nove persone le quali, fino a prova contraria, erano forse pacifisti a senso unico, ma non certo guerriglieri. E che comunque erano in mare aperto, senza avere compiuto gesti ostili. Allo screditato Consiglio Onu dei diritti umani di Ginevra ieri s’è ripetuto un copione scontato, con i Paesi ostili allo Stato ebraico solleciti nel chiedere un’indagine immediata, cui ha risposto il no americano e italiano e l’astensione delle altre nazioni occidentali partecipanti. Per una volta potrebbe essere Israele a rompere lo schema dei riflessi condizionati e a dare piena collaborazione a un’investigazione indipendente. Ammettere un eventuale eccesso di uso della forza – invece di accusare le vittime – sarebbe, oltre che ulteriore prova di adesione ai valori delle democrazie, anche un modo per rompere quell’"unicità" che non pare nel lungo periodo giovare alla sua causa. Che, bene intesa, è anche la causa del mondo libero.