Alti impegni politici e speranza (e memorie) di uno scrittore Igiovani scrittori italiani potranno sentirsi alla pari con i colleghi francesi, tedeschi, eccetera. Fino a ieri noi scrittori italiani eravamo figli di uno Stato minore, che non faceva niente per potenziare la diffusione della propria lingua all’estero. Gli istituti di cultura italiani nel mondo sono numerosi, ma sottopotenziati: non ricevono fondi. Adesso, Renzi e Mattarella hanno annunciato che sono stati stanziati 50 milioni di euro per rafforzare l’attività dei nostri istituti. Parola di premier, spinta di presidente della Repubblica. È una notizia bellissima. Finanziare gli istituti all’estero vuol dire aumentare i corsi di lingua italiana, accettare l’iscrizione di più studenti, arricchire le biblioteche, facilitare la traduzione di autori italiani. Un autore che fa una conferenza parla un’ora, un libro che entra nella biblioteca parla per sempre. La debolezza della lingua italiana nel mondo rendeva finora difficile far capire agli stranieri che cos’era, vista e descritta dalla letteratura, la nostra vita, la nostra società, la nostra politica, il nostro cattolicesimo, la nostra campagna, la nostra città. Ho conosciuto moltissimi istituti italiani. Ne ho un ricordo splendido e grato. Specialmente di quelli che non avevano mezzi. Se alcuni di quei direttori leggono questo articolo, spero che vi sentano l’ammirazione e non il contrario. Il mio libro più tradotto è un romanzo che la critica definisce “cristiano”. In italiano s’intitola “Un altare per la madre”, in Francia “Apothéose”, negli Usa “Memorial”, dappertutto ha cambiato titolo. Ho girato il mondo per presentare le sue traduzioni. Gli istituti locali mi aiutavano come potevano. A Budapest il direttore mi dava ogni mattina una mancetta, che doveva bastarmi per mangiare fino a sera. Ha chiesto in prestito una Seicento Fiat con la quale ho fatto il giro delle università ungheresi, per parlare agli studenti. Dormivo in un alberghetto senza doccia. Un’università, Pecs o Seged, non ricordo, aveva una doccia per gli studenti. Lunga fila in attesa. Io ero tutto sudato. Il mio accompagnatore grida: «Prima lo scrittore, prima lo scrittore». Ho fatto la doccia per primo, vergognandomi da morire. Per risparmiare, in una università mi han fatto dormire nell’appartamento del rettore, che per l’occasione se n’era andato. Ho visto sul pavimento dei triangoli neri che camminavano. Cimici. Invitato a Lione, ci sono andato benché avessi una gamba rotta e ingessata, dall’inguine alla caviglia. Con due stampelle. Mia moglie era con me per aiutarmi a salire e scendere dai treni. Quindi avevo un biglietto per due. Me ne hanno rimborsato metà. A Varsavia mi davano l’importo per mangiare una pizza. La pizzeria era piccola, si aspettava fuori, in strada. Ordinavi e poi uscivi. L’ordinazione aveva un numero. Quando sulla porta s’accendeva il tuo numero, entravi. A Stoccolma gli studenti che volevano iscriversi ai corsi d’Italiano erano così numerosi, che molti venivano esclusi. La Germania, a chi s’iscriveva alla lingua tedesca, dava un premio. In Lettonia un editore voleva tradurre quel mio libro “cristiano”, ma non aveva i soldi per la carta, e rimandava di anno in anno. Con sofferenza sua e mia. Quando ha potuto, ha comprato la carta e ha fatto il libro. Me ne ha mandato una copia. Ogni tanto la guardo e mi sento meglio. In Turchia quel libro cristiano l’ha preso un editore islamico integralista: eppure m’ha organizzato conferenze all’università e interviste alla tv. In Francia ho fatto tradurre Primo Levi, sontuosa presentazione alla stampa e all’intellighenzia locale, c’erano tutti. Io ero invitato dall’Istituto, che alla fine s’è dimenticato di pagare l’albergo. Pago e torno a casa. Lunghe telefonate di scuse, penose più per me che per loro. Ecco, queste cose che i nuovi scrittori non dovranno più patirle. Speriamo.