Opinioni

Il risarcimento alla bimba down e la deriva sociale. Se con una sentenza l'aborto diventa un dovere

Carlo Casini, presidente Movimento per la Vita mercoledì 10 ottobre 2012
L’aspirazione ad alleviare le sofferenze causate dalla nascita di un figlio disabile è un sentimento naturale. Anche per i giudici, che più volte sono stati chiamati a decidere se il medico, che non ha diagnosticato l’anomalia durante la gravidanza, sia obbligato a risarcire il danno che non si sarebbe verificato se ci fosse stato l’aborto. Poiché i medici sono assicurati contro i rischi professionali, è molto forte la spinta emotiva a "trasformare il dolore in denaro": il medico non pagherà niente perché coperto dalle assicurazioni, le quali non falliranno di certo, e il disabile avrà un sostegno finanziario per tutta la vita. Il problema è come pervenire a una tale soluzione senza tradire la logica giuridica e un sentimento di umanità ben più profondo dell’emozione sperimentabile guardando un "diversamente abile". Bisognerebbe, infatti, considerare la nascita come danno, ipotizzare un diritto a non nascere se non sano. Più radicalmente ancora bisognerebbe affermare che il concepito non esiste, è una cosa e non un essere umano. È quanto fa la recente sentenza n. 16754 della Cassazione, depositata il 2 ottobre scorso. Ci sarà tempo e modo di smascherare le sue contraddizioni. Le sue difficoltà argomentative si attorcigliano nello sforzo di evitare espressioni come "diritto di non nascere", ma, nonostante la lunghezza della motivazione (76 pagine), tutte le tesi a favore del concepito sono ignorate. Sarebbe bastata una pagina per scrivere 17 volte "diritto di aborto", "diritto di autodeterminazione della madre", "diritto del feto solo al momento della nascita", "concepiti oggetto di tutela e non soggetti di diritto", "dimensione del non essere del nascituro". Persino le parole della sentenza che nel 1975 aprì il varco all’aborto vengono alterate perché quella decisione non scrisse che l’embrione «essere umano deve ancora divenire», ma si limitò a negare al figlio la qualità di "persona". Non arrivò a dire che il figlio non è un essere umano.Orbene: tutti vorremmo alleviare le sofferenze dei disabili, ma non a costo di negare la loro stessa umanità; non a costo di negare l’identità di esseri umani a tutti i nascituri. Se «l’evento di danno è costituito dalla nascita malformata, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita a un soggetto di diritto attualmente esistente» (pag. 68 della sentenza), se «la libertà individuale è più importante della dignità umana» (pag. 65), allora la deriva è terribile. Il danno colpisce anche la società e l’aborto diventa un dovere; la condizione dannosa dell’esistenza è eliminata anche dopo la nascita con la morte; il disabile può chiedere il risarcimento non solo al medico, ma anche alla madre che non ha esercitato il suo diritto di autodeterminazione nell’interesse del figlio: anzi, il danno provocato consapevolmente (cioè dolosamente) dalla madre è più grave di quello provocato inconsapevolmente (cioè colposamente) dal medico. Con la motivazione della sentenza qui commentata, la deriva iniziata nel 1975 arriva alla sua conclusione. Salta il compromesso che si pretese di operare tra opposti diritti della madre e del figlio. L’ipocrisia non nasconde più il volto dell’iniquità più estrema. La sentenza del 1975 tentò, almeno, di mantenere la legittimità dell’aborto nella cornice dello "stato di necessità": chi offende un altro non commette illecito se agisce per salvare sé o altri da un reale pericolo proporzionato al male che, per evitarlo, produce. Ma se non usa questo suo legittimo potere nessuno può chiedere un risarcimento perché il danno al terzo non è stato provocato.Dicevano: «L’aborto è un dramma, non è un diritto». Hanno difeso la legge 194 ricordando che l’articolo 1 dichiara la tutela della vita umana fin dal concepimento; sostenendo che l’aborto è consentito in pochi accertati casi e mai per ragioni eugenetiche; proclamando che la norma ha lo scopo di difendere la vita attraverso l’emersione dalla clandestinità e l’incontro della gestante con la società. Sapevamo che questi tentativi sono un inganno, ma ora la sentenza del 2 ottobre rende ancor più evidente ciò che della legge scrisse La Pira («integralmente iniqua»). Alla radice vi è la negazione della umanità del concepito. Tanto più opportuna si rivela, perciò, l’iniziativa europea «Uno di noi»: un grido tanto breve quanto forte che raddrizza le tortuosità della ragione e restituisce verità al diritto.Nel momento in cui finisco di scrivere questo articolo mi viene trasmessa la relazione ministeriale sulla 194. Essa mi conferma la deriva di cui parlavo. Il ministro Balduzzi pensa di ridurne la dimensione sottolineando il ruolo dei consultori familiari e della sentenza citata del 1975, ma dimentica l’enorme quantità di aborti occulti cagionati con la pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo. Quantomeno per erigere una seria diga contro la deriva è necessario riconoscere che il concepito è un essere umano a pieno titolo. In caso contrario, non può negarsi che l’ipocrisia e l’inganno sono un supplemento di ingiustizia della legge.