Un discorso fermissimo, che lascia poco spazio alle interpretazioni ambigue. Pochi giorni fa il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, parlando dinanzi ai vertici religiosi dell’Università al-Azhar – il maggior centro teologico di tutto il mondo sunnita – in occasione del nuovo anno e della celebrazione della nascita di Maometto, ha pronunciato parole molto nette sulla necessità di una vera e propria «rivoluzione religiosa». Uno sforzo diretto contro le cattive interpretazioni dell’islam, che incitano alla violenza e alla chiusura dinanzi alle altre comunità. Al-Sisi si è anche chiesto come sia possibile che la religione islamica venga percepita come «fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione» da parte del resto del mondo. O come ami vi sia chi, fra i musulmani, pensi che la sicurezza possa essere raggiunta solo eliminando gli altri sette miliardi di abitanti del mondo.
Frasi probabilmente mai pronunciate prima nel cuore di al-Azhar, ove da tempo prevalgono le voci apologetiche nei confronti della tradizione islamica più rigida. Certo, le sue massime autorità hanno sempre condannato gli estremismi e il terrorismo di al-Qaeda o dell’autoproclamato califfo al-Baghdadi, e hanno più volte aperto spiragli al dialogo religioso. Ma si sono troppo spesso autoconfinate nel rispetto formalistico della tradizione (il
taqlid, l’imitazione), apparentemente incapaci di muoversi da una prospettiva che non sia islamico-centrica. Per questo il presidente ha pronunciato giudizi molto netti anche sul questo tipo di atteggiamento, ricordando le responsabilità dirette degli ulema e dei giurisperiti religiosi rispetto alla diffusione del radicalismo e di un atteggiamento di intolleranza verso le minoranze religiose sempre più diffuso nel mondo islamico.
Lo sanno bene i copti cristiani egiziani, che si apprestano a celebrare il loro Natale fra imponenti misure di sicurezza e le immancabili violenze, pagate – ancora ieri – con la vita dei poliziotti schierati a difesa delle chiese. Da qui l’invito del presidente ai religiosi sunniti a «uscire da loro stessi», per favorire una riforma dell’interpretazione religiosa che sradichi il fanatismo e favorisca una visione più illuminata dei rapporti con "l’altro" in un mondo globalizzato e sempre più interdipendente.
Certo, qualcuno ha visto in questo discorso l’ennesimo attacco contro i Fratelli Musulmani e un chiaro avvertimento verso quegli ulema che si pongono con ambiguità nei confronti del radicalismo islamico. Altri hanno sottolineato l’incongruenza di un presidente "anti-islamista" che tuttavia viene appoggiato dall’Arabia Saudita, Paese per eccellenza sponsor del dogmatismo religioso, e che ha goduto dell’appoggio di Hizb al-Nur, il partito dei salafiti egiziani, espressione massima del solipsismo religioso e dell’incapacità di accettare l’altro.
Osservazioni fondate. Che tuttavia non colgono la portata di dichiarazioni così forti e, a dirla tutta, anche coraggiose, fatte non per ingraziarsi un uditorio occidentale, ma nel cuore dell’esegesi e della tradizione islamica egiziana. Al-Sisi ha detto anche che la comunità islamica (la
umma) viene lacerata e distrutta «dalle nostre stesse mani». Non dal solito complotto sionista o dei crociati, come viene ripetuto ossessivamente da decenni in Medio Oriente. Con forza egli ha ripreso quanto vanno dicendo intellettuali e studiosi riformisti, che spesso hanno pagato con la vita il loro coraggio: ossia che l’islam deve necessariamente riprendere con decisione e con spirito critico quel cammino di revisione dell’interpretazione dei suoi princìpi religiosi avviato con il riformismo islamico nel XIX secolo e poi via via abbandonato. Proprio un altro egiziano, Muhammad Abduh (morto nel 1905), insegnava da al-Azhar il rapporto strettissimo fra ragione e fede, che doveva stimolare a vivificare l’interpretazione dell’islam e a discernere l’azione buona da quella malvagia. E dinanzi alle stragi continue compiute in nome di una visione distorta della religione, chi può negare il bisogno estremo di questa coraggiosa "rivoluzione del pensare"?