Opinioni

La scienza cristiana della sofferenza. Il coraggio e la gioia di «sentire insieme»

Riccardo Maccioni domenica 18 novembre 2012
È una materia che non studi sui libri di testo o nelle aule universitarie. La impari accanto alla vecchietta che ti stringe la mano prima di dormire, negli occhi impauriti del professionista che ha sentito il cuore rallentare, nel grido del malato cronico che chiede un po’ di tregua al dolore. Parlando agli operatori sanitari, ieri il Papa l’ha chiamata «scienza cristiana della sofferenza», che significa umanità condivisa, è il «sentire insieme» tra chi anche nei momenti più bui non rinuncia ad alzare lo sguardo al cielo. Perché la vita ha senso sempre, anche quando è un susseguirsi di siringhe infilate in vena, o un rosario di lacrime che fatichi a consolare. Anzi proprio assistere chi sta male, ti aiuta a dare un valore diverso all’esistenza quotidiana, può essere una finestra aperta sul ripetersi stantìo dei giorni, ti insegna che cosa conta davvero. È una scuola di umanità cui siamo tutti iscritti, a cominciare da chi della lotta alla sofferenza ha fatto un mestiere e, spesso, anche una missione. Qualità che non si escludono a vicenda ma sono anzi chiamate a convivere, a crescere insieme. Essere cristiano per un medico o un infermiere o per qualunque altro operatore sanitario implica, allora, una responsabilità in più, significa dover abbinare competenza e umanità, saper vivere la professione con cuore generoso e le braccia spalancate a tutti. È lo stile del buon samaritano, il modello di una sanità che alle leggi del mercato, pur importanti, antepone la centralità della persona, compresa quella più fragile e indifesa. Non si tratta di negare la crisi o di sottostimare i problemi, ma di dare il giusto peso alle cose. Perché credente o no, la vocazione del medico è servire ogni uomo e tutto l’uomo, in ogni fase della sua esistenza. Se ci viene passato il paragone, per un «camice bianco» curare un malato è come celebrare la Messa per un sacerdote. Ogni sofferente va trattato come se fosse il primo, l’unico, l’ultimo che si assiste. Detto in altre parole, la gratuità, la condivisione, sono il pane quotidiano di chi va a lezione in quelle scuole di sofferenza e quindi di comunione che sono gli ospedali e le case di cura. Ma anche le tante famiglie dove l’anziano, il portatore di handicap, il malato terminale sono amati come e più di quando erano attivi. E produttivi. Del resto, se riavvolgiamo con onestà il nastro della memoria, ritroveremo le tante lezioni di vita imparate dagli ultimi, magari il nonno semianalfabeta o l’anziano cugino malato, quelli che una certa cultura contemporanea vorrebbe inutili o superflui. Sono questi i maestri che hanno accompagnato l’esistenza di santi come Giuseppe Moscati o Riccardo Pampuri. È per loro che Jérôme Lejeune si è dedicato alla ricerca. E l’elenco potrebbe continuare con Anna Schäffer e Gianna Beretta Molla, la santa mamma. Fino ad arrivare ai giorni nostri, alla «cattedra della sofferenza» da cui insegnava Giovanni Paolo II. Il coraggio dimostrato dal Papa polacco nel dolore, la sua testimonianza di fede di fronte alla malattia che lo consumava, sono un inno immortale al valore dell’uomo, alla gioia di vivere in e con Gesù. Che è Signore della vita e per ricordarlo a tutti spesso si accontenta anche della mano tremante di una vecchietta, dello sguardo impaurito di un ex uomo di successo, del grido di un malato.