Opinioni

Scelte. La schiavitù nei campi: e se ce ne sentissimo responsabili quando acquistiamo?

Pietro Saccò sabato 22 giugno 2024

Braccianti nei campi

Se non fosse morto a 31 anni perché una macchina che serve ad avvolgere la plastica gli ha staccato un braccio, oggi Satnam Singh sarebbe ancora a lavorare nei campi dell’Agro Pontino. Magari per una delle aziende della famiglia Lovato – quella del signore che lo ha scaricato davanti a “casa” quando era senza un braccio e con la moglie nel panico – magari per qualcun altro: nelle campagne laziali la domanda di braccianti abbonda e il lavoro si trova sempre. Basta avere l’energia e la disperazione che servono a raccogliere ortaggi e frutta per una dozzina di ore al giorno e capire abbastanza l’italiano per obbedire agli ordini che ti arrivano. Occorre lamentarsi poco e farsi bastare 3, 4 o 5 euro all’ora. Niente contratti, né voucher o cose simili: le paghe, ovviamente, sono in nero.

Non fosse morto, Singh sarebbe ancora uno schiavo moderno come gli altri. Uno dei tanti a disposizione delle imprese italiane. Di schiavi come lui, asiatici e africani già esperti del lavoro dei campi, ce ne sono tra i 5mila e gli 8mila solo nella provincia di Latina, dicono le stime. Una quota considerevole, ma nemmeno grande, degli oltre 200mila lavoratori vittime di caporalato nell’agricoltura del nostro Paese, dal Veneto alla Sicilia, secondo le stime della Fai Cisl. Ma dal momento che l’Italia non vive di soli campi e ortaggi, altrove abbiamo schiavi con specializzazioni diverse. Ci sono quelli cinesi, che sanno confezionare capi a regola d’arte nei capannoni di Prato, dove vivono, mangiano e dormono. Altri, ancora cinesi, nascosti negli “opifici” tra Milano e Bergamo realizzano borse di lusso per le case di moda che il mondo ci invidia. Nei magazzini dei grandi poli della logistica, tra Piacenza e Pavia, abbiamo ancora schiavi – spesso latinoamericani – che impacchettano roba varia da spedire in giro per il Paese. In ogni grande città d’Italia possiamo imbatterci facilmente in altri schiavi che attorno all’ora dei pasti scattano con le loro biciclette senza luci per portare da mangiare a casa di qualche cliente del food delivery. Nelle strade delle periferie altre schiave aspettano chi cerca del sesso in cambio di un po’ di euro.

Ci siamo accorti di Singh una volta che è morto con modalità così tragiche. Molti altri schiavi li vediamo, capiamo che cosa sono e che cosa fanno, ma non li notiamo. Lo sappiamo tutti che esistono. Ci siamo abituati. Lo sfruttamento della disperazione che arriva qui da tutto il mondo è ormai integrato in molti ambiti dell’attività economica in Italia.

È giusto interrogarsi sulle leggi che abbiamo e sui controlli delle nostre forze dell’ordine, perché è incredibile che queste situazioni di macroscopica illegalità vadano avanti per decenni senza grossi ostacoli: non siamo un Paese sconfinato, non è possibile nascondere per sempre decine di migliaia di lavoratori sfruttati. È indispensabile essere esigenti con le grandi aziende dell’alimentare, del commercio e della distribuzione: ci sono i patti di filiera, le regole sulle catene di fornitura, le tecnologie per verificare la “storia” di un prodotto; è sempre più difficile dire “non lo sapevo” quando le cronache giornalistiche rivelano chi raccoglieva quelle fragole vendute a nemmeno due euro al chilo. Però, per com’è oggi l’Italia, non basta.

“Consumatori” non è una parola bellissima ma è ciò che siamo quando andiamo a fare la spesa o compriamo qualcosa, in negozio o online. E come consumatori abbiamo ancora un grande potere nella società del consumo, che ha nei prezzi bassi – a qualsiasi costo – uno dei suoi dogmi. Il “voto con il portafoglio” di cui tanto abbiamo scritto su Avvenire non è una teoria astratta ma una pratica che possiamo adottare nella nostra quotidianità.

Quando scegliamo un negoziante e un prodotto piuttosto che altri stiamo contribuendo a decidere quale modello di economia e di società vogliamo. È laborioso: occorre leggere le etichette, informarsi sulle storie delle imprese, fare uno sforzo per impiegare senso critico e ragionevolezza e smascherare i falsi storytelling dei fenomeni del marketing.

È anche costoso, perché i lavoratori in regola costano di più degli schiavi e il rispetto dell’ambiente comporta le sue spese. Ma un po’ di impegno dobbiamo metterlo anche noi, se vogliamo ridurre il rischio di trovarci nel piatto un melone raccolto dal povero Singh e se vogliamo fare in modo che quegli schiavi non siano anche nostri.