Opinioni

Giustizia. Schettino reo e libero: il paradosso di un sistema

Mario Chiavario sabato 14 febbraio 2015
La sentenza del Tribunale di Grosseto per il disastro dell’isola del Giglio ha riservato non poche sorprese.   Forse, quella che più ha colpito l’opinione pubblica è stata l’apparente contraddizione tra la severità della pena inflitta all’(ex) comandante della “Costa Concordia” Schettino – 16 anni di reclusione per reati di natura non dolosa non sono certo pochi, anche se la richiesta dei pubblici ministeri puntava ad una cifra ancora più alta – e il mantenimento in libertà del condannato.  A stretto rigore, da un punto di vista giuridico, contraddizione non c’è. In Italia, infatti, le sentenze di condanna emesse in primo grado non sono immediatamente esecutive: è l’art. 27 della Costituzione a dirci che l’imputato non è considerato colpevole sino a che una condanna penale non sia diventata definitiva, e dunque fino a quando vi sia possibilità di appelli o ricorsi e gli uni e gli altri, se concretamente proposti, non siano poi stati discussi ed esauriti. È questa una garanzia diretta a ridurre al minimo gli effetti di eventuali errori giudiziari e che, almeno teoricamente, colloca l’Italia a un livello di maggiore civiltà rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei, dove il sistema delle impugnazioni penali è, in genere, molto più snello del nostro e dove il riconoscimento della presunzione d’innocenza come presidio dell’in dubio pro reo non impedisce di dare esecuzione anche alle sentenze di primo grado, salvo, poi, riparazione per le detenzioni eventualmente subite senza ragione.  L’imputato che in Italia arrivi al giudizio “a piede libero” non potrà dunque, neppure se condannato a una pena severa, essere immediatamente portato in carcere né assoggettato ad altre misure cautelari “minori” (in una gamma che va dal divieto di espatrio agli arresti domiciliari); valgono al riguardo, in via di principio, le stesse regole stabilite per la fase anteriore al giudizio, quella delle indagini preliminari; dovrà cioè essere riscontrato il pericolo che l’imputato fugga, oppure inquini le prove o commetta altri gravi delitti. Dell’esito che il procedimento è venuto ad avere – dice l’art. 275 del codice di procedura penale – dovrà bensì tenersi conto al fine della valutazione di tali pericoli ma non nel senso che automaticamente la severità della pena detentiva inflitta faccia dare, ad esempio, per scontata il rischio di una fuga.  Tutto regolare, insomma. Resta una palese sensazione di diseguaglianza a danno di chi, invece, per una diversa valutazione degli organi delle indagini preliminari, giunga al giudizio in stato detentivo (e lo può essere da anni): costui, infatti, in caso di condanna continuerà, di regola, a stare in carcere … senza se e senza ma. È uno dei tanti paradossi della nostra giustizia, che fa tanta fatica a gestire in maniera equilibrata anche le più sacrosante delle garanzie.