Opinioni

Il «contenimento» dell'Iran. Le scelte che pesano più delle pietre

Riccardo Redaelli mercoledì 10 febbraio 2010
Il leader supremo della rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, aveva promesso un «pugno in faccia all’Occidente», secondo l’usurata retorica rivoluzionaria a lui tanto cara. E ieri, puntualmente, un gruppo di basiji in abiti civili ha inscenato un attacco all’ambasciata italiana. S’è visto tante volte in questi anni a Teheran, secondo un canovaccio prestabilito: proteste "spontanee" di cittadini – in realtà si tratta per lo più di membri delle milizie radicali – fermati poi dalla polizia iraniana, a segnalare la disapprovazione o la rabbia del regime verso un singolo Stato o verso tutta la comunità internazionale. L’Italia, dopo le dure dichiarazioni di Silvio Berlusconi contro il presidente Ahmadinejad rilasciate in Israele, con il sovrappiù della difesa – acritica – dei passati bombardamenti israeliani su Gaza, ha rappresentato un bersaglio ideale.Inutile drammatizzare più di tanto l’evento, che testimonia tuttavia il deterioramento dei rapporti politici fra i nostri due Paesi: per anni il governo iraniano ha considerato Roma come una delle capitali meno ostili e più attente alle preoccupazioni e alle aspirazioni della Repubblica islamica. Ora siamo al lancio delle pietre. Ma a pesare come macigni, ben più dei sassi scagliati dai dimostranti, sono le scelte compiute in questi anni da Teheran. O meglio, decise e imposte dalla fazione ultraradicale della divisa élite politica iraniana, la quale ha deformato i meccanismi di potere interni, con la manipolazione delle elezioni, gli arresti, le minacce e le uccisioni di chi si oppone alle visioni dogmatiche e intolleranti di Ahmadinejad. Con la repressione brutale delle proteste popolari interne – quelle sì spontanee – di questi mesi. Con una politica estera aggressiva a livello regionale. E con l’esasperante ambiguità nelle trattative sul nucleare.Da mesi l’Iran manda segnali contrastanti: riafferma la propria volontà di trovare un accordo che tranquillizzi l’Occidente e nel contempo rifiuta le proposte di compromesso, concilianti e oggettivamente favorevoli a Teheran, avanzate con l’avallo dell’Amministrazione Obama.La decisione di alzare ulteriormente la sfida, arricchendo alcune sue scorte di uranio debolmente arricchito dal 4% fino al 20%, pone la comunità internazionale dinanzi a scelte non più rinviabili. Tecnicamente, la mossa è motivata con la necessità di alimentare il reattore di ricerca di Teheran (che appunto abbisogna di uranio al 20%), ma spinge ancora in avanti il «limite invalicabile» – e sempre calpestato – oltre al quale sarebbero potute scattare le reazioni statunitensi o israeliane. La verità, secondo molti analisti, è che nessuno può più fermare l’Iran dall’avere la sua «bomba potenziale»: magari non la costruirà effettivamente e non arriverà a un test nucleare militare, ma il Paese ha tutti gli elementi per farlo. Come si dice nei circoli politici di Washington, «bisogna ragionare in un’ottica di contenimento e non più di non-proliferazione».Nell’attuale contesto internazionale, le minacce di nuove sanzioni, devono fare i conti con i distinguo russi e cinesi, e non sembrano spaventare più di tanto l’Iran. Le troppe debolezze occidentali – dalla crisi economica alla guerra in Afghanistan fino ai continui focolai di crisi mediorientali – rendono protervo il regime e sembrano celare i costi economici e politici del suo avventurismo.È tuttavia tempo di dare segnali: l’11 febbraio, l’Italia non parteciperà alle cerimonie del regime per celebrare la vittoria della rivoluzione sullo scià. È auspicabile che tutti i Paesi dell’Unione europea facciano altrettanto. Non si tratta solo di solidarietà continentale: nella Teheran insanguinata dai troppi morti di questi mesi, con le prigioni stipate di dissidenti e le milizie dei pasdaran e dei basiji sempre più arroganti, c’è ben poco da festeggiare.