A Pomigliano d’Arco, dunque, arriva la produzione della nuova Panda, come hanno confermato ieri la Fiat e i sindacati firmatari dell’intesa. Ed è la prima, buona, notizia: lo stabilimento non è destinato a una lenta agonia, si torna a lavorare, a produrre automobili e a guadagnarsi il salario, che di questi tempi è una grazia (oltre che un atto di giustizia). Ma la seconda notizia – che interessa tutti noi – è che così il Paese torna a giocare la sfida mondiale dell’economia in generale e dell’industria in particolare. E lo fa proprio a partire dal Napoletano. Da quel Mezzogiorno, cioè, che all’estero è spesso sinonimo di arretratezza e di criminalità, d’impossibilità d’investire e crescere in maniera corretta.C’è tutto questo e molto altro in ciò che è accaduto ieri. Prima con la ratifica dell’accordo sull’investimento da 700 milioni di euro, firmato dai leader di Cisl, Raffaele Bonanni e Uil, Luigi Angeletti, a testimonianza di un’assunzione di responsabilità intelligente e coraggiosa da parte delle due confederazioni (assieme alle sigle dei metalmeccanici, a Ugl e Fismic). E poi con la lettera che l’amministratore delegato Sergio Marchionne ha scritto «a tutte le persone del Gruppo Fiat in Italia», nella quale si chiamano i lavoratori a condividere la sfida della competitività «per colmare il divario che ci separa dagli altri Paesi e portare la Fiat ad un livello di efficienza indispensabile per garantire all’Italia una grande industria dell’auto e a tutti i nostri lavoratori un futuro più sicuro». Una scelta che non ha alternative, chiarisce il manager.Un richiamo alla realtà salutare in un Paese come il nostro, che si avvita spesso in contrapposizioni sterili e si mostra incapace di focalizzare i problemi (mentre sui mercati internazionali perdiamo quote di esportazione e gli investimenti dall’estero continuano a crollare...). Quella prospettata è una sfida obbligata. Difficilissima e per la quale siamo già dati fra i perdenti. Perché non potremo – e nemmeno vorremmo – essere competitivi con la Cina, l’India o anche solo il Brasile e la Polonia in termini di salari e di condizioni di lavoro. E però neppure potremo far finta che là fuori – nel vasto mondo che si sta industrializzando, progredisce negli studi, è disposto a lavorare assai più di noi – ci si fermi ad aspettarci nella corsa all’attrazione degli investimenti e alla produzione.Sì, è vero, «le regole della competizione internazionale non le abbiamo decise noi», e se la scelta è tra «stare dentro o fuori dal gioco», come scrive ancora Marchionne, non abbiamo dubbi: conviene a tutti scendere in campo piuttosto che arrendersi al declino, anche a costo di qualche sacrificio, della revisione dei nostri modelli organizzativi. Ma dobbiamo assolutamente imparare a giocare a "modo nostro". Tocca a noi trovare una "terza via", o più modernamente un "italian way", allo sviluppo. Coniugando ricerca e alta qualità, saper fare e impegno nel lavoro, flessibilità e fantasia.E tutto questo può realizzarsi solo se si cambiano i paradigmi del rapporto tra capitale e lavoro. Se dal tradizionale conflitto distributivo si passa a una svolta partecipativa, se la condivisione degli obiettivi economici si coniuga con la valorizzazione della «persona» e del lavoro. La Fiat, la Cisl e la Uil hanno scelto questa strada, quella di «un patto sociale» per vincere tutti insieme la «sfida tra noi e il resto del mondo». Giocare bene questa partita è qualcosa che riguarda tutto il Paese.