Quanto costa alle donne denunciare la violenza. Tutto ciò che conta, solo ciò che serve
E così, una presunta violenza sessuale diventa argomento di conversazione davanti ai banconi dei bar, nelle cene tra amici, sotto gli ombrelloni. È sempre stato così, si dirà, e nel dramma milanese (perché di dramma si tratta, qualunque sarà l’esito delle indagini e di un eventuale processo) che coinvolge Leonardo Apache La Russa e una – chissà per quanto ancora – anonima 22enne, gli elementi per tener desta l’opinione pubblica estiva ci sono tutti. C’è il potere, ci sono i soldi, c’è la politica, c’è la droga. E c’è il sesso, o, meglio, il tema, delicatissimo e che “appassiona” oggi più che mai, del consenso femminile a un rapporto sessuale.
L’opinione pubblica italiana si divide come sempre tra innocentisti e colpevolisti; a seconda anche delle preferenze politiche, i commentatori da bar si collocano di qua o di là. È sempre stato così, si ripeterà, e difatti lo stesso copione era andato in scena nel caso che ha coinvolto Ciro Grillo e tre amici genovesi di cui si sta celebrando il processo in Sardegna. Il cicaleccio però non si ferma ai bar, alle terrazze estive, alle spiagge - già questo, peraltro, suona leggermente osceno.
No, il cicaleccio purtroppo riempie le pagine dei giornali e dei siti web; si nasconde dietro le dichiarazioni più o meno “estorte”, sollecitate o estrapolate, delle amiche o del padre della presunta vittima (anche il padre dell’indagato ha fatto – maldestramente – la sua parte). Dietro le trascrizioni delle conversazioni online della ragazza ancora nella camera da letto di La Russa jr. Dietro i referti degli specialisti che visitarono la giovane alla Clinica Mangiagalli.
Da queste righe, allora, viene un sommesso appello almeno alla sobrietà. Sappiamo quanto costa alle donne denunciare una violenza. Se poi a quella denuncia seguono paginate sui giornali con ogni piccolo particolare della visita medica, delle sostanze chimiche rilevate nel sangue, addirittura delle modalità del rapporto sessuale, allora si capisce che l’intimidazione subita da una colpisce tutte le altre. Anche questa è una violenza: sapersi sotto i riflettori, sentirsi radiografata nei comportamenti e nello stile di vita. Da qui a trasformarsi da vittima a colpevole in un processo mediatico, prima ancora che le indagini siano iniziate, il passo è breve.
Sappiamo peraltro che spesso le “veline” sono trasmesse ai giornali dagli stessi team legali, che intravvedono nella delegittimazione della controparte una buona strategia. Ebbene, i giornali e i siti non sono obbligati, nemmeno o forse a maggior ragione sotto la spinta dell’interesse morboso dei lettori/utenti, a sottostare a logiche estranee a una professione che ha a che vedere con l’informare correttamente, non con il solleticare il voyerismo del pubblico.
Ci sono diversi codici deontologici e di autoregolamentazione giornalistica, peraltro, che nei casi di violenza sessuale obbligano a fornire solo cronache essenziali, senza indulgere in particolari che non aggiungono nulla se non alimento alla curiosità. Per tacere poi degli sguaiati “commenti” che pretendono di anticipare le sentenze. Noi di Avvenire ci impegniamo a informare su questa triste vicenda, così come in altre circostanze, secondo una linea di sobrietà ed essenzialità. Un conto sono le polemiche politiche, un altro il racconto di una dramma – lo ripetiamo – che tocca gli aspetti più intimi e la dignità delle persone: tutto ciò che conta, solo ciò che serve.
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