Nel suo discorso conclusivo del Concilio Vaticano II Paolo VI dichiarò: «L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio». Che cosa accade, si chiedeva il Pontefice, quando l’umanesimo cristiano del Dio che si è fatto uomo incontra quello profano dell’uomo che vuol farsi Dio? Non uno scontro, ma un desiderio di accoglienza e comprensione: una «immensa simpatia», perché solo a partire dalla trascendenza si può essere «i veri cultori dell’umano».Non è certo un caso che quasi mezzo secolo più tardi Papa Francesco scelga la stessa immagine per indicare la via dell’autenticità della comunicazione. La figura del Samaritano, in tempi in cui la sfida è quella del post-umano più che del superuomo, illumina almeno tre grandi questioni antropologiche: la comunicazione, appunto. Ma anche la libertà. E, più in generale, la nostra stessa umanità.Rispetto alla comunicazione, il messaggio ci indica con chiarezza la direzione di una "conversione" del nostro sguardo sui media: spostare il centro della questione dal tecnologico all’antropologico, la sostanza della comunicazione dalla trasmissione di messaggi all’incontro tra persone, la sua riuscita dal piano delle strategie al dono di sé. Senza il primo, fondamentale messaggio della prossimità, "sono con te" (che lo stesso che Gesù ci ha lasciato: «sono con voi fino alla fine dei giorni») nessuna comunicazione autentica è possibile. Gli "sviluppi inauditi" delle tecnologie non sono né un impedimento né tantomeno una condizione sufficiente per l’autenticità della comunicazione. Nessun alibi dunque, nessun catastrofismo ma anche nessuna ingenua euforia. Piuttosto, un richiamo serio alla questione, così cruciale e così bistrattata, della nostra libertà.In un mondo in cui la libertà è presentata come possibilità illimitata di scelta (che dunque non può scegliere mai veramente, se non al prezzo di negarsi), il Samaritano ci presenta un modello diverso: libertà come possibilità di rispondere, superando tutti i vincoli, all’altro che ci interpella.Apparentemente liberi, il sacerdote e il levita, che guardano ma non vedono, sono in realtà prigionieri: del loro ruolo, del loro tempo, delle classificazioni sociali che definiscono il puro e l’impuro. Vedono il ferito come uno straniero, come una categoria astratta anziché una persona, e sono loro stessi ruoli senza volto:
aprosopos, senza volto, significa appunto "schiavo".Il samaritano è invece libero: dalle convenzioni sociali e dai loro muri invisibili ma efficaci, che fanno del ferito una minaccia; dalla dittatura dell’efficientismo, che porta continuamente a calcolare cosa "perdiamo" prestando attenzione agli altri; da se stesso, superando l’esitazione e il disagio in nome della comune umanità. Ci mostra così una via nuova della libertà: una libertà veramente liberata, dai vincoli esterni e da quelli interni all’io, e perciò capace di eccedenza e novità. Una libertà come risposta al non previsto né pianificato, al volto dell’altro che mi interpella, che liberamente scelgo e da cui mi faccio scegliere, destinatario di un "sì" libero. Non per dovere, ma per grazia. Per questo Gesù ribalta la domanda: non "chi è il mio prossimo" (come fosse una categoria sociale predefinita, o qualcuno che sta a una distanza misurabile) ma "chi si è fatto prossimo?". Non c’è nessuno ostacolo, né sociale né tecnologico, che possa impedirci questo atto di libertà suprema, grazie al quale entriamo in una relazione di reciprocità, che prima di tutto guarisce noi stessi dall’autoreferenzialità. Così può accadere l’incontro che, come lo definisce Guardini, è un "inizio vivo" che fa irrompere la novità, la grazia, la vita nelle nostre esistenze. Il Samaritano è dunque anche un modello di umanità. La parabola dilata la categoria del peccato, ovvero di ciò che mortifica l’umano: prima ancora che essere violazione di una legge, la radice del peccato è l’indifferenza, il girare la faccia di fronte al volto; che ci rende a nostra volta senza volto, schiavi. Il Samaritano è l’alternativa, forse l’unica, a Caino, che rifiutando la custodia del fratello non ha nessuna remora a ucciderlo. Facendoci prossimi all’altro in risposta al suo volto che interpella, invece, abbiamo accesso a una verità fondamentale sull’umano: nel riconoscere l’altro come fratello ci riconosciamo anche come figli di un Padre che ci ama dello stesso amore. «Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio» (
Evangelii gaudium, 272).Si può dire così che in ogni incontro autentico siamo almeno in tre, e questo rompe quel circuito io-tu che tante volte rischia di implodere. La via del volto è la via della libertà nella fraternità, che ci rende pienamente umani, ci insegna il Samaritano. «E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!» (Evangelii gaudium, 274).