La crisi economica europea, tra i suoi tanti diversi effetti, ne ha portato uno, che pochi hanno sottolineato: essa ha vistosamente depotenziato il dibattito pubblico sui temi strettamente bioetici e su quelli a questi in qualche modo riconducibili (penso, ad esempio, alle questioni di diritto di famiglia, che sorgono dal diffondersi pressoché inarrestabile delle pratiche di fecondazione artificiale). Non che questo dibattito sia scomparso dalla scena – non mancano del resto notizie di cronaca che incentivano ciclici ritorni di fiamma mediatici – ma c’è da dubitare che l’opinione pubblica se ne lasci coinvolgere più di tanto: troppo difficile è diventato, infatti, seguire con cognizione di causa le sempre più intricate questioni bioetiche, per dominare le quali sono ormai necessarie competenze sottilissime, spesso precluse perfino ai laureati in medicina.
Il risultato è che la bioetica di cui si continua a parlare è ormai una "bioetica liquida", come quella dello spot (tecnicamente impeccabile) con cui l’Associazione Luca Coscioni ha chiamato a raccolta una settantina di personaggi noti al grande pubblico (intellettuali, artisti, giornalisti...) che non esitano a fare propaganda esplicita a favore di una sollecita legalizzazione in Italia dell’eutanasia. Il punto è che tale propaganda fa appello a un concetto, appunto, estremamente "liquido", quello della pretesa «autonomia» dei malati terminali. Non c’è chi voglia mancare di rispetto all’«autonomia», ma non c’è nemmeno chi riesca davvero a definirla col rigore che sarebbe necessario quando la si vuol porre a fondamento di un testo di legge così scottante, come quello che abbia per oggetto le situazioni di fine vita.
Se vogliamo consolarci, portiamo l’attenzione Oltralpe e vedremo come alla liquidità concettuale si sia ormai inestricabilmente congiunta una nuova dimensione della liquidità, quella lessicale. Per il governo francese il termine "eutanasia" in senso proprio non dovrebbe essere più utilizzato: il presidente Hollande, che pure in campagna elettorale si era sbilanciato a favore, sta promuovendo una normativa che continuando a punire l’eutanasia si limiti a legalizzare una sedazione profonda per i malati terminali, insistendo sulla radicale differenza etica e linguistica tra il "dare la morte" (sia pure col consenso del malato), pratica che resterebbe appunto illegale, e l’assecondare il naturale e ormai irreversibile processo del morire, accompagnandolo con terapie compassionevoli, come appunto la sedazione, ma di per sé non intenzionalmente letali: la legalizzazione di questa pratica (peraltro descritta in modo nebuloso) dovrebbe mettere finalmente d’accordo tutti (!).
Come si vede, tornano continuamente alla ribalta temi di delicatezza estrema, dibattuti appassionatamente, ma mai compiutamente messi a fuoco, come quelli dell’accanimento (o dell’abbandono) terapeutico, della palliazione, della sospensione più o meno concordata (e con chi?) delle terapie, del suicidio assistito. La bibliografia non solo divulgativa, ma anche strettamente scientifica in merito, è immensa; lo smarrimento della pubblica opinione (facendo eccezione per quella ormai caduta preda di pregiudizi ideologici che niente e nessuno potrà mai scalfire) è altrettanto immenso.
Una cosa appare a questo punto sicura: è giunto il momento di
depoliticizzare questo dibattito. La vita e la morte non possono essere misurate facendo riferimento a maggioranze parlamentari più o meno variabili e puntellate da spot pubblicitari, sia pur promossi con le migliori intenzioni. Bisogna che i Comitati di bioetica (nazionali e internazionali) abbiano il coraggio di mettere all’angolo i dibattiti politici e di riassumere senza timidezza quel ruolo da protagonisti, per il quale sono stati pensati e istituiti.Quando infatti nel 1983 il presidente francese Mitterrand istituì in Francia il primo Comitato nazionale di etica, con una decisione che venne rapidamente imitata prima in tutta l’Europa, poi praticamente in tutti i Paesi del mondo, lo fece partendo da una lucida intuizione, quella – appunto – della necessaria e indifferibile depoliticizzazione della bioetica, in analogia alla necessaria depoliticizzazione di tutti i grandi 'sistemi' a rilevanza antropologica, propri della modernità, dall’arte allo sport all’istruzione superiore... Legiferare in materia bioetica ovviamente si può e si deve, non però per stabilire e vincolare penalmente i contenuti materiali delle pratiche biomediche (cosa aberrante, come sarebbe aberrante che fosse una legge dello Stato a dettare le regole del football o i canoni estetici), ma per salvare la biomedicina da pressioni e deformazioni soprattutto speculative e mercatiste (come ad esempio avviene con la legislazione sui trapianti, il cui primo obiettivo è quello di prevenire e sanzionare il commercio di organi). In termini più tecnici, il 'sistema politica' deve rispettare l’autonomia di tutti i sistemi etici e,
in primis, del sistema bioetico. Mai come in questo momento siamo stati lontani da tale obiettivo, ed è davvero desolante vedere come un tema che tocca letteralmente tutti, come quello della fine della vita umana, sia ridotto a una misera disputa tra fazioni di partito e 'conservatori' e 'progressisti', alla stanca caccia dei voti di un elettorato ancora più stanco.