«Il Marocco vuole farci cambiare politica rispetto al riconoscimento del Sahara occidentale. Ma per i nigeriani questo non è un tema negoziabile». Batte il pugno sul tavolo il professor
Ibrahim Agboola Gambari, docente di lungo corso presso il centro Savannah di studi diplomatici, mentre arringa la platea dello Yar’Adua Centre di Abuja. Davanti a lui giuristi, economisti, storici ed esperti, convenuti in Nigeria dai quattro lati del Pianeta per discutere di un altro pezzo d’Africa: il Sahara occidentale, a tutt’oggi controllato dal Marocco. «L’ultimo lembo del continente non ancora decolonizzato», spiega Gambari, citando il titolo della Conferenza internazionale di studi che l’Academic Staff Union of Universities si è prodigata a organizzare a giugno, con il supporto delle Istituzioni nigeriane e dell’Unione africana. Un simposio accademico che rischia di raffreddare ulteriormente i rapporti già tesi, negli ultimi tempi, tra Abuja e Rabat. Tutto era iniziato lo scorso marzo, con una presunta telefonata tra l’allora
presidente nigeriano Goodluck Jonathan e il re del Marocco Mohamed VI. Affari elettorali, scrisse la stampa locale. Il cristiano Jonathan cercava appoggio da parte della corona alawita per trarre a sé l’elettorato islamico, nella difficile corsa alla rielezione contro l’incombente Muhammadu Buhari, musulmano. Da Rabat si erano affrettati a smentire il colloquio telefonico, per via della posizione della Nigeria sulle «questioni sacre nazionali», leggi 'Sahara Occidentale'. L’imbarazzo diplomatico aveva convinto Mohamed VI a ritirare il proprio ambasciatore da Abuja. Poi le elezioni, la sconfitta di Goodluck e il trionfo dell’All Progressive Congress (Apc) di Buhari, alla guida di un Paese provato negli ultimi anni dall’insorgenza violenta degli jihadisti di Boko Haram. «Era stato proprio Buhari, durante il suo primo mandato nel 1984, a far sì che la Nigeria riconoscesse la Repubblica araba saharawi democratica – racconta ancora il professor Gambari, che di quell’esecutivo aveva fatto parte, come ministro degli Esteri –. Il supporto nigeriano alla causa saharawi è storico, trasversale agli schieramenti politici e alle esplosive dinamiche interreligiose che da sempre interessano questo Paese. Non a caso l’ambasciatore della Rasd è il Decano del corpo diplomatico qui ad Abuja». Infine, la Conferenza internazionale, l’ultima goccia di un cocktail indigesto per il Marocco. «La Nigeria è il più importante Paese d’Africa – spiega Abdelkader Taleb Omar, primo ministro della Rasd – la sua influenza politica è stata essenziale per il riconoscimento della nostra Repubblica da parte dell’Unione africana. Consesso di cui il Marocco, proprio per questa ragione, non fa più parte. La Conferenza dimostra la solidarietà che i saharawi hanno sempre ricevuto, non solo da parte delle Istituzioni nigeriane, ma anche dell’opinione pubblica e della società civile». Una vicenda in gran parte dimenticata, quella del popolo saharawi. La storia di una decolonizzazione fallita e di un 'esilio' che dura ormai da 40 anni. Correva l’anno 1975. Con l’intera Spagna al capezzale del caudillo Francisco Franco, Hassan II di Marocco coglieva l’occasione per occupare metà della 53° provincia di Spagna, l’allora Sahara Spagnolo, con una 'marcia verde' di 350mila coloni. «Una mobilitazione di massa che rinsaldò una monarchia in crisi – dice Jacob Mundy, ricercatore presso la Colgate University di Hamilton (Usa) –. E che venne resa possibile anche grazie all’appoggio statunitense, specie da parte dell’allora segretario di Stato Henry Kissinger. Fu con il beneplacito americano che avvenne la spartizione dell’allora Sahara spagnolo tra Marocco e Mauritania». I famigerati accordi tripartiti di Madrid, firmati in segreto con la corona spagnola il 14 novembre del 1975. «Una storia per molti aspetti simile a quella di Timor Est – osserva Pedro Pinto Leite, giurista portoghese dell’International platform of jurists for East Timor ed esperto di entrambe le questioni, quella timorense e quella saharawi –, nel Sud-Est asiatico fu l’Indonesia a vestire i panni del Marocco. Ma alla fine, grazie anche all’importante ruolo giocato dalla Chiesa cattolica, l’ex colonia portoghese riuscì ad ottenere l’indipendenza, dopo il referendum del 1999. I saharawi attendono ancora che quel giorno arrivi». C’erano arrivati vicino nel 1991, quando un cessate il fuoco pose fine a 25 anni di resistenza da parte del Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro (Polisario). L’accordo, sotto l’egida delle Nazioni Unite, prevedeva che in sei mesi si giungesse a una consultazione che non si è mai celebrata. Da allora l’Onu è presente con i caschi blu della Minurso. Ma a distanza di venticinque anni nulla è cambiato. «La missione non ha tra i propri compiti quello di vigilare sul rispetto dei diritti umani – spiega il dottor Sidi Omar, dell’Università Jaume I di Castellon –, ci sono violazioni che avvengono ogni giorno nei territori occupati dal Marocco, rispetto alle quali le Nazioni Unite non possono intervenire. Esiste un muro nel deserto, lungo 2.700 chilometri e interamente minato nelle sue adiacenze. Lo ha edificato il Marocco, ma la comunità internazionale fa finta di non vedere». Nel 2003, l’inviato speciale delle Nazioni Unite, James Baker, propose un governo congiunto di transizione per cinque anni, in vista del referendum. Secco è giunto il rifiuto di Mohammed VI. L’unica proposta di Rabat è quella di una larga autonomia per la regione. Ma in ogni caso sotto la corona marocchina. Con buona pace dell’Onu e della sua missione. «La Spagna continua ad essere la legale amministratrice de facto del Sahara occidentale – spiega il professor Juan Soroeta, dell’Università basca di San Sebastian – così è per la giurisdizione internazionale e per quella spagnola. La stessa Audiencia Nacional si è espressa in tal senso, di recente. Risulta implicito il fatto che il Marocco sia una nazione occupante». Rabat però respinge tutte le accuse, punto su punto. Ma i Paesi chiamati in causa nella partita sono almeno altri due. L’Algeria, l’alleato più forte dei saharawi, che accoglie tutt’ora sul proprio territorio, nei campi rifugiati della zona di Tindouf, la maggior parte degli esuli del 1975. Infine, la Francia, ex colonizzatrice sia del Marocco sia dell’Algeria, il cui parere sull’autodeterminazione, in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu, è sempre stato contrario. Un mosaico di interessi geopolitici trasversali, che si intrecciano e si scontrano, tra il Maghreb e l’Europa meridionale. E che, almeno fino a oggi, ha reso impotente la comunità internazionale. «Ci sono interessi commerciali in gioco che coinvolgono anche l’Europa», afferma Erik Hagen, del Western Sahara Resources Watch di Oslo, che da anni si occupa di monitorare la spoliazione delle risorse del Sahara Occidentale. Da una parte, l’industria ittica, dato che il territorio saharawi è bagnato da uno dei tratti di Oceano atlantico più pescosi d’Africa. Dall’altra, i giacimenti di fosfati, i più produttivi del Pianeta, che si trovano a Bucraa, nei pressi di Al Aaiún. Pesce e fosfati. Il petrolio del Sahara. Un piatto saporito sul quale in tanti, troppi, hanno allungato le mani. «I recenti accordi di pesca firmati a Strasburgo tra l’Unione Europea e il Marocco – prosegue Hagen – testimoniano che la materia è economica, ancor prima che politica. Del resto, la stessa Nigeria è tra i primi esportatori in Africa di sardine pescate in quel tratto di Oceano e commercializzate dalle manifatture marocchine. C’è un tema commerciale che sta alla base del rapporto politico. La soluzione diplomatica passa da qui».