La decisione del capo dello Stato di costituire due commissioni di saggi sui programmi è un tentativo di superare la grave situazione di stallo che stiamo vivendo. E anche di mettere i partiti di fronte alle loro responsabilità. Se i saggi saranno in grado di individuare alcuni punti programmatici di buon senso, il rifiuto da parte di uno dei partiti di realizzarli per motivi tattici di massimizzazione del consenso elettorale futuro potrebbe essere sanzionato dall’opinione pubblica e dunque scoraggiato. In economia le iniziative urgenti e condivisibili da tutti sono in fondo molte, perché le concrete differenze tra i maggiori partiti su questi temi sono minori dei conflitti amplificati dalla propaganda e dai personalismi antagonistici. Il lavoro di proposta dei saggi potrebbe allora concentrarsi sul miglioramento della competitività del sistema Paese, sulla riforma fiscale – con una forte attenzione alla famiglia –, del sistema bancario-finanziario e sulla pressione sulla Ue per una decisa revisione del Fiscal Compact, che consenta di adottare politiche macroeconomiche espansive al pari di Stati Uniti e Giappone per contrastare la piaga della disoccupazione. Pare oggettivamente utile, infatti, concentrare l’attenzione sui problemi dell’istruzione e della ricerca scientifica, sul ritardo digitale, sull’evasione fiscale, sui tempi di pagamento delle amministrazioni pubbliche, sui tempi della giustizia civile e sull’eccesso di burocrazia che rallenta la creazione d’impresa. Per fare un esempio, c’è forse qualche partito dei maggiori (Pd, Cinquestelle, Pdl, Scelta civica) che ha qualcosa contro l’obiettivo di passare dai 180 giorni medi di pagamento nostrani (fino a 3 anni in Calabria...) ai 35 giorni medi di pagamento dei tedeschi? O ha qualcosa in contrario a ridurre da 1.210 a 398 giorni la durata media di una causa civile quando molti imprenditori spostano la loro sede di attività a Londra proprio per avere tempi certi sulla durata di tali cause? Altro tema chiave è quello della riforma fiscale. Bisogna arrivare a "pagare meno, ma pagare tutti" trasferendo immediatamente alle famiglie i benefici derivanti dalla lotta all’evasione, in modo da avere minori tasse per tutti. E va spostato il più possibile il peso del prelievo dalle fonti più vive per il bene comune e la creazione di valore economico (reddito, famiglia, lavoro) verso le attività che generano effetti esterni negativi sulla società (come inquinamento e ludopatie). Purtroppo le strategie per raggiungere questo obiettivo generalmente condivisibile sono però piuttosto differenti e dunque raggiungere il consenso è più difficile. Un ulteriore cardine della strategia elaborata dai saggi potrebbe essere quello di riformare il sistema bancario e finanziario per rimetterlo al servizio del Paese. Seguendo i passi già avviati da Francia, Germania e dagli stessi Stati Uniti nelle direzioni da tempo indicate dalle più autorevoli commissioni indipendenti (Vickers e Liikanen) che auspicano separazione tra banca commerciale e banca d’affari, contenimento della dimensione degli intermediari per evitare la patologia delle banche "troppo grandi per fallire" e maggiore severità sull’uso di strumenti di finanza derivata per evitare finalità puramente speculative (lo scandalo Mps e la crisi di Cipro non hanno fatto che confermare, purtroppo, l’urgenza di questi interventi).Infine, è l’Europa l’altro terreno sul quale potrebbe realizzarsi una possibile convergenza. Ormai è chiaro che la teoria del "rigore espansivo", che di per sé avrebbe fatto ripartire il Paese, è miseramente fallita. E lo sblocco da parte dell’Ue delle spese per investimento dalla regola di bilancio e dei fondi per pagare i debiti pregressi della Pa che mobilita potenzialmente fino a 50 miliardi appare un riconoscimento, ancorché tardivo, di questo errore. Se si vuole salvare l’Unione monetaria, le politiche macroeconomiche europee dovrebbero essere molto più coraggiose, dando alla lotta alla disoccupazione importanza prioritaria. E il vero spirito europeista in un momento come questo non consiste nell’essere acquiescenti di fronte a quelli che
ex post si sono rivelati e si riveleranno degli errori, ma nel fare piuttosto pressione perché questa politica cambi. I cambiamenti essenziali che non possono più attendere le convenienze politico-elettorali dei singoli Paesi sono, a nostro parere, l’implementazione dell’unificazione bancaria che ancora non è stata realizzata sebbene sia stato trovato un accordo già la scorsa estate e una seria e rapida revisione del Fiscal Compact. Quest’ultima misura appare urgente, in quanto il rispetto degli indicatori (del tutto arbitrari) di quel Patto rischia di portare alla totale disgregazione europea. Prova ne sia che un Paese come la Francia, pur risparmiata sinora dagli attacchi speculativi, non riesce a rispettare i criteri imposti.