Opinioni

Editoriale. Scacco cinese all'auto Ue: errori e crisi dell'industria europea

Pietro Saccò mercoledì 2 ottobre 2024

Della globalizzazione non si può prendere soltanto quello che ci fa comodo. L’industria dell’auto europea lo sta sperimentando drammaticamente in questi mesi in cui tutti i maggiori costruttori – Volkswagen, Stellantis, Mercedes e Bmw – sono stati costretti a rivedere al ribasso le previsioni sui risultati del 2024, mostrando una fragilità che fa davvero temere per il futuro dell’intero settore.
Per almeno trent’anni le grandi case automobilistiche europee hanno potuto far leva sulla forza dei marchi storici e un fortissimo vantaggio tecnologico per approfittare di tutte le buone occasioni che si sono presentate con l’apertura dei mercati internazionali. Sono andate a costruire automobili dove costava meno, non soltanto per rifornire i mercati locali (come già facevano da decenni) ma anche per produrre vetture da importare in patria. La separazione tra il marchio e il suo territorio di riferimento – cioè le regioni e le persone che ne avevano fatto la storia – è stata presentata come una scelta moderna, l’idea dell’auto come complesso prodotto industriale espressione di una terra e di una cultura è stata abbandonata senza troppe nostalgie. Si costruiscono le auto dove conviene farle, e se la nuova 500 ha il disegno dell’auto protagonista del “miracolo italiano” ma è invece un piccolo “miracolo polacco”, perché esce dalla fabbrica di Tychy, il cliente se ne farà una ragione. Solo ai più ricchi è lasciato il lusso di fare gli schizzinosi: chi spenderebbe qualche centinaia di migliaia di euro per una Ferrari non uscita da Maranello o una Lamborghini non costruita a Sant’Agata Bolognese?
Allo stesso tempo, però, il fascino dell’auto europea è quello che ha permesso di sfondare nei nuovi mercati. Il rombo dei motori tedeschi ha sedotto per qualche decennio le decine di migliaia di nuovi “benestanti” che spuntano ogni anno in Cina. Il mercato cinese è stato così redditizio - e i costi e le contingenze di produzione così allettanti - che quasi nessuna delle grandi aziende europee ha resistito alla tentazione di andare a costruire sul posto, accettando di fatto le condizioni poste da Pechino. Su tutte l’obbligo di allearsi con partner locali, così da permettere lo sviluppo anche in Cina del migliore know-how nella produzione di automobili. «Le nostre auto possono essere esportate. Non c’è nessuna differenza di qualità con quelle costruite al di fuori della Cina» diceva nel 2010, in un’intervista alla rivista di settore Automotive News, Ulrich Walker, che era amministratore delegato di Daimler Northeast Asia.
Qualche manager può avere pensato che si potesse andare avanti così per sempre: i grandi costruttori europei avrebbero continuato ad aprire fabbriche in tutto mondo – insidiati solo da giapponesi, coreani e americani – trovando clienti sempre nuovi, avrebbero abbattuto i costi e alzato i prezzi, aumentando gli utili e con essi i dividendi da distribuire agli azionisti e i compensi da assegnare agli amministratori delegati. Qual è l’obiettivo di una casa automobilistica, se non fare profitto?
Qualche obiettivo alternativo però può esserci. L’utile a fine mese o il compenso al manager sono l’ultima cosa che interessa ai nuovi rivali che le case automobilistiche europee hanno allevato in questi decenni. I nuovi marchi cinesi che ogni mese scaricano centinaia di migliaia di automobili elettriche e non nei porti del Nord Europa non cercano tanto il profitto: vogliono prendersi il mercato. Dovevamo considerare questa variabile, negli anni in cui i successi dell’export dell’auto ci inebriavano: le altre potenze dell’economia mondiale non funzionano secondo le nostre regole, non hanno gli stessi principi. Se vogliamo giocare la partita con loro, dobbiamo tenerne conto. Anzi, dovevamo farlo dall’inizio.
Adesso il vantaggio tecnologico è tutto loro: i cinesi hanno visto nel passaggio dai motori termici a quelli elettrici un’occasione forse irripetibile per recuperare terreno rispetto ai rivali europei, giapponesi e americani. Ci hanno investito anche grazie a enormi finanziamenti dello Stato, hanno preso il controllo delle materie prime per realizzare le batterie, hanno creato un sistema che permette di realizzare auto elettriche, ibride ma anche termiche a prezzi che gli europei – i quali, probabilmente, non avevano proprio capito che cosa stesse succedendo da quelle parti – non sono in grado di proporre. Sembrano essere riusciti a reinventare l’auto di massa proprio nel momento in cui, con i listini lievitati molto più rapidamente degli stipendi, la macchina per tutti sembrava in via d’estinzione.
Ce l’avremmo fatta anche noi europei, se avessimo avuto gli stessi aiuti di Stato? Probabilmente no: le nostre case automobilistiche avevano già esplicitamente imboccato la strategia di salire di gamma, cioè produrre modelli più costosi che garantiscono maggiori margini, lasciando ad altri il mercato di massa. E ora “altri” sembrano più attrezzati per prendersi sia il mercato di massa che quello di gamma più alta. Dazi e tariffe possono mettere una toppa, ma non salveranno l’industria da tutti i suoi sbagli.