Arte sacra e abusi. Rimuovere i mosaici di Rupnik: per le vittime o per altro?
La Pentecoste è uno dei mosaici di Marko Ivan Rupnik
Che fare delle opere di Marko Ivan Rupnik? La questione, già emersa in contemporanea alle accuse sugli abusi che avrebbe perpetrato l’ormai ex gesuita e artista, e sui quali è in corso un’indagine, è ritornata al centro del dibattito dopo che il presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori, il cardinale Sean O’Malley, si è rivolto ai dicasteri della Curia Romana invitandoli a evitare di esporre o usare le sue opere d’arte in un modo che possa far presumere un atteggiamento «di assoluzione o sottile difesa» o che possa indicare «indifferenza al dolore e alla sofferenza» delle vittime.
Nei giorni scorsi il vescovo di Lourdes Jean-Marc Micas ha diramato una dichiarazione molto interessante sul problema dei mosaici realizzati da Rupnik sulla facciata della basilica della Madonna del Rosario: «I mosaici devono essere lasciati dove sono? - ha scritto Micas - Devono essere distrutti? Dovrebbero essere rimossi o esposti altrove? Non c'è consenso su nessuna delle proposte». Ieri si è saputo che saranno coperti in due chiese americane: nel santuario nazionale di San Giovanni Paolo II a Washington e nella Cappella della Sacra Famiglia presso la sede centrale dei Cavalieri di Colombo a New Haven.
Il fatto interessante è che il motivo della rimozione non riguarda le opere, ma le vittime. È la prima volta che questo avviene nel campo della cosiddetta “arte sacra” - dove la questione è sempre stata di tipo dottrinale o di gusto - e per esteso del patrimonio ecclesiale. E lo fa con un’ulteriore prima volta: perché qui vediamo in atto nel presente e in tempo reale il fenomeno che coinvolge monumenti e musei, e che al di là degli estremismi della cancel culture, sta attivando un dibattito particolarmente interessante attorno a un passato non più tanto glorioso come è stato raccontato.
Rimuovere, conservare, depotenziare, ricomprendere sono i verbi di questo dibattito, che ritroviamo a Lourdes e che, come a Lourdes, non ha risposte preconfezionate. Ed è difficile non individuare come attorno ai mosaici di Rupnik si stiano agitando forme di resistenza ideologiche e ondate emotive. Tutto questo risponde a un’esigenza di giustizia, di cui hanno diritto le presunte vittime, il presunto colpevole e le presunte opere d’arte?
Sarebbe bello credere ancora che estetica ed etica vadano a braccetto. Purtroppo, le opere d’arte non si possono valutare in base alla moralità dell'autore. Certo, nel caso di Rupnik la ferita è aperta e lo scandalo è grande. Ipotizziamo però che le molte commissioni ricevute siano state dovute al fatto che si riconoscesse nel suo lavoro una validità estetica e teologica. Se è così, se quelle opere sono valide esteticamente e teologicamente, forse dovrebbero sopravvivere, perché il loro contenuto è buono al di là dell’autore e dei suoi peccati. Se invece così non fosse, non solo dovremmo toglierle ma non avremmo nemmeno dovuto commissionarle. Questo sarebbe ancora più vero, e grave, se riconoscessimo nella loro forma la perversione dell’autore – ma la posizione non pare scevra da morbosa ipocrisia.
Forse, però, la risposta alla domanda è un’altra: queste immagini, più semplicemente, erano una soluzione facile e popolare, rispondente a un desiderio di compromesso. Le celebratissime opere di Rupnik appagavano l'illusione di un'arte insieme moderna e che ripristinasse l'icona. Non erano nessuna delle due cose e, anzi, le simulavano entrambe: come decorazione e come impossibile, nostalgico alone di fumo. Il dibattito, dunque, non dovrebbe dimenticare di riflettere anche sui processi di committenza, utile discernimento (sebbene mai esente dal rischio) per il futuro.