Opinioni

«Romanzare ci sta». E invece no! Basta la realtà del sisma del 1980

Marco Tarquinio martedì 24 novembre 2020

Caro direttore,
lo so che la cosa non è granché rilevante, ma in uno degli articoli che avete dedicato ai quarant’anni dal terremoto del 1980 pubblicato su “avvenire.it” si parla di pioggia al momento della scossa che sconvolse Campania e Basilicata e mentre si scavava nelle macerie... Va bene romanzare un po’, e rendere ancora più eroico l’impegno di chi venne in assistenza alle popolazioni colpite dal sisma, ci sta. Anzi, forse ci sta. Comunque, fino a un certo punto. E se mi sono risolto a scriverle è perché il giorno di domenica 23 novembre 1980 io c’ero e ricordo, perché non me lo potrò mai scordare, che non pioveva e nemmeno per tutta la settimana a seguire. Solo la domenica successiva iniziò a nevicare e io e la mia famiglia, insieme a tante altre persone eravamo accampati in un orto sotto dei teli di plastica e dormivamo su delle assi di legno che ci facevano da brande. Comunque, le immagini del terremoto in Irpinia ci sono e le potete vedere anche voi per verificare se ho ragione. Io ricordo e molti come me ricordano, perché c’erano.

Grazie Maurizio Molinari

Caro signor Molinari,
la ringrazio per aver condiviso con noi la sua memoria personale. E innanzitutto la rassicuro: non è nostro costume aggiungere ingredienti “eroici” a cronache e testimonianze. E nel caso del terremoto del 1980, per di più, non c’è proprio nulla da romanzare: la realtà basta e avanza. E i ricordi sono asciutti anche se bagnati di commozione. Magari a lei sarà toccato di vivere in un angolo di Irpinia risparmiato dalle intemperie nei primi terribili giorni del sisma che aveva sconvolto Campania e Basilicata. Se la terra si era mostrata nemica, il cielo purtroppo sembrava non esserlo di meno per i terremotati e per chi s’impegnava accanto a loro e per loro. Lei c’era, mi dice. Ma c’era anche Maurizio Patriciello, oggi prete e allora giovane infermiere che da Napoli accorse in Irpinia. E c’ero anch’io, ventiduenne, partito da Assisi con altri sei amici e un pulmino giallo avuto in prestito da un amico generoso ma incastrato negli impegni di lavoro. Entrammo in un piccolo convoglio di volontari, quasi tutti scout, organizzato dalla Caritas umbra. Eravamo una sessantina e martedì 25 novembre arrivammo a sant’Angelo dei Lombardi attraverso l’ultimo varco nella cintura sanitaria che era stata stabilita. Non pioveva, al nostro arrivo, ma il cielo era livido e c’era fango. Fango e macerie, macerie e fango. E già il giorno successivo, mercoledì, nel freddo intenso che rendeva un po’ meno greve l’aria di una città diventata cimitero, cominciarono a ballare su di noi piccoli fiocchi di neve. Ma torno all’arrivo. Ricordo bene il giovane, esausto e furibondo medico che ci accolse per caso al posto di blocco e che, provvidenzialmente spazzando via le perplessità e le resistenze delle forze dell’ordine che lo presidiavano, letteralmente ci trascinò per una strada malmessa attraverso case diroccate, voragini e detriti d’ogni sorta, in una risalita sino all’Ospedale che ci ammutolì. L’Ospedale non esisteva più, se non come collina rovesciata su se stessa, e aveva ingoiato tutti e tutto. Era uno dei punti chiave di quel disastro. E non riuscimmo più a staccarcene. Da quel momento lavorammo spalla a spalla coi portuali di Livorno, attrezzatissimi, bravi e generosi di esempio, consigli e bevande calde. Eravamo tutti sotto la guida di un ufficiale dei Vigili del Fuoco, un ingegnere di cui purtroppo non ricordo il nome (avrei cominciato a fare il cronista solo l’anno successivo, e non pensai a prendere appunti). Ma non dimenticherò mai il suo grido e le sue lacrime, davanti al fallimento nel recupero di un sopravvissuto. Alla persona trovata viva sotto le macerie, imprigionata e irraggiungibile perché sepolta ancora da diversi metri di pesanti e precari detriti, era stato fatto arrivare un tubicino di ossigeno. Un movimento degli spezzoni di cemento provocato da una piccola e inesorabile scossa aveva tagliato di netto quel tubicino e aveva richiuso lo spiraglio da cui la voce di quell’uomo era filtrata, animando lui e noi di speranza. «Ragazzi! – sbraitò, accorato, quel Vigile del fuoco – guardate, e non dimenticate mai! Devono venire tutti qui in pellegrinaggio gli studenti di ingegneria d’Italia! Devono capire come non si costruisce!». E ci agitava sotto il naso un sasso grosso come una mela e un pezzo di ferro senza uncino usati – i tecnici, perdonino il mio lessico impreciso... – in un struttura d’angolo e di raccordo di quel colosso di cemento armato collassato in modo repentino e assassino. Non ho mai studiato ingegneria edile, come si è capito, ma a ogni successiva tragedia sismica quella frase e quella scena mi sono tornate in mente e le parole le ho ripetute a fior di labbra, nelle riunioni di redazione ma anche in qualche articolo e incontro pubblico. E mi sono ritrovato via via all’unisono con quanti – da Giuseppe Zamberletti, padre della Protezione civile italiana a Domenico Pompili, vescovo di Rieti – hanno saputo ricordarci che non sono i terremoti a uccidere, ma gli esseri umani con le loro malefatte, cioè con le opere sbagliate per dolo o colpa o ignoranza o per tutte e tre le cose. E infatti lì, a Sant’Angelo dei Lombardi, nel cuore dell’Irpinia, ci toccò di soccorrere e tirar fuori dalle macerie i sopravvissuti (pochi) e i morti (troppi) in un Ospedale nuovissimo eppure crollato piano su piano, come un tragico soffietto stritola-tutti. Eravamo arrivati sotto un cielo livido, caro signor Molinari. Non pioveva più, ma aveva piovuto e poi avrebbe piovuto di nuovo, in un gelo crescente, sino a che l’acqua si fece neve. Ma dal primo momento facemmo i conti con il fango pesante e vischioso figlio della pioggia. In quel fango che tremava per le continue scosse di assestamento, avevamo piantato le tende dove dormivamo e quella di comunità, che ospitava un dispensario di cibo e medicine presto svuotato. In quel fango, grazie a Dio, c’erano anche – perfettamente efficienti e ai nostri occhi immacolati – i “container di servizio” dei livornesi dai quali si dava soccorso a tutti, anche ai soccorritori. In quel fango, un fango che non dimenticherò mai come l’odore di morte nell’aria e i volti terrei di tutti, lavorammo in quell’ultima settimana di novembre fino a non farcela più nonostante i verdi anni. C’erano anche eroi e malfattori all’opera nel grande cratere di quel terremoto, e poco a poco lo avremmo capito meglio. Ma gli eroi non eravamo noi. Noi, come tanti altri volontari e volenterosi, eravamo semplicemente esseri umani. Intirizziti, infangati, bagnati, sfiniti, appassionati esseri umani.