Opinioni

Editoriale. L'appello di Draghi e le ambizioni che l'Europa merita

Marco Ferrando martedì 10 settembre 2024

Le azioni proposte da Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività possono portare l’Europa a guadagnare molto e i singoli Stati a perdere relativamente poco in termini di sovranità. Nessuna magia: l’ex presidente Bce ha osato fare ciò che riesce più difficile a chi guida istituzioni e partiti. Ovvero uscire dalla mera contabilità del consenso elettorale per tracciare alcune strade – ambiziose ma percorribili – capaci di estrarre tutto il valore possibile di un grande progetto politico ed economico, l’integrazione europea, che non ha eguali al mondo e si presenta ancora come una grande incompiuta.

A questo punto è lecito attendersi che la Commissione di Ursula von der Leyen, da cui è partito l’incarico, sappia farne realmente tesoro, al di là dei proclami. D’altronde ne ha un disperato bisogno: come la stessa presidente ha ricordato davanti all’Aula di Strasburgo che l’ha confermata, il voto di giugno impone scelte forti, identitarie in senso europeista, decisive per le sorti di un percorso minacciato dall’ondata sovranista. Contesto e minacce erano diverse, ma anche il piano Juncker si proponeva di rilanciare l’Europa come potenza tecnologica globale. E il Next Generation Europe, targato Von der Leyen, puntava non solo a far ripartire l’Unione dopo la pandemia, ma a cogliere l’occasione per risolvere alcuni ritardi di competitività accumulati nel tempo. Molto è stato fatto o è tuttora in corso, ma certo non si può dire che iniziative così straordinarie abbiano straordinariamente inciso sulla popolarità di chi le ha promosse e scaldato il cuore degli europei. O anche ricordato alla maggioranza di loro che l’integrazione è un percorso obbligato semplicemente perché è il più celere per la crescita e lo sviluppo.

Valanghe di numeri dimostrano che senza le istituzioni comunitarie gli europei, del Nord o del Sud, oggi starebbero peggio e senza l’euro e una politica monetaria unica – pur troppo spesso a rimorchio di quella americana – avrebbero visto molto accentuata la marginalizzazione a cui è destinata un continente sempre più vecchio e irrilevante. Ciononostante, su Bruxelles e dintorni ristagna tuttora una gigantesca cappa tecnocratica, più percepita che reale, tuttavia capace di relegare le sue politiche a una sorta di ordinaria amministrazione decentrata, raramente destinata a incidere profondamente sui destini dei Paesi e delle persone. Anche così si spiegano i risultati elettorali di giugno, o quanto sta accadendo nei primi due Paesi europei: la Francia si prepara a un governo probabilmente destinato per la prima volta a stare in piedi grazie alla destra lepenista, nell’ultimo voto in Germania i partiti estremisti di ambo i lati sono usciti vincitori e per loro si profila un inedito ruolo da protagonisti nelle partite che contano.

L’aria è pesante, forse non è la mai stata così tanto da quando è nato il sogno europeo. Per questo sarebbe utile che l’esercizio di confronto ed elaborazione compiuto in questi mesi da Mario Draghi lasciasse il segno al di là delle ricette che ha generato. Alzare lo sguardo e l’asticella è l’unico modo per ridare un senso al progetto europeo. Ma l’impressione è che ci si possa e debba spingere anche oltre, là dove Draghi non poteva arrivare: la politica. Quella stessa politica a cui era solito appellarsi da numero uno Bce, quando – arginati gli attacchi speculativi dei mercati con gli strumenti della politica monetaria – non si stancava di ripetere che “ora tocca ai governi fare la loro parte”, plasmando un’Europa credibile e ambiziosa. In pochi ci sono riusciti: alcuni per debolezza, altri per convenienza, molti nella convinzione che alla fine il processo di integrazione europea è lento ma inesorabile, dunque destinato in ogni caso a prendere forma e trovare compimento. Ne siamo così sicuri? Stando ai rinnovati appelli – l’ultimo del presidente Mattarella da Aosta – a riforme urgenti e strutturali sulle grandi questioni identitarie, forse no. Non è un caso che tra i temi più divisivi oggi ci sia la gestione dei flussi migratori: chi entra, dove va, a fare cosa. C’è in ballo una questione di sicurezza, ma anche dell’idea che abbiamo per l’Europa, della sua identità, del suo ruolo e del suo peso a livello globale. Qui siamo ancora appesi ai distinguo, a invidie, simpatie e antipatie ataviche. Forse parliamo molto dei confini esterni perché non abbiamo saputo ancora fare i conti fino in fondo con quelli interni. Che, guarda caso, è proprio là dove finora si sono bloccati sul nascere i processi suggeriti da Mario Draghi. Compreso quello così delicato in tema di difesa, accettabile solo se avviato nel contesto più ampio in cui è stato pensato e cioè di una politica estera comune per l’Unione.

Il rapporto può finire nelle mani dei tecnici, quella macchina operativa che finora ha tenuto in movimento le istituzioni comunitarie. Ma sarebbe bene finisse sul tavolo della politica. E magari la risvegliasse pure dal suo cinico torpore, regalandole un’occasione per rimettere in moto la partecipazione e la corresponsabilità tra i Paesi, i partiti e le famiglie politiche – con i pensieri a cui si rifanno, a partire da quello cattolico – che hanno avuto il coraggio di costruire il sogno europeo quando pareva solo tale. È una partita culturale, che speriamo possa godere, ad esempio, dell’ossigeno delle generazioni Erasmus più che soffocare nelle algide regole di bilancio che troppo spesso scandiscono le agende. Una partita in cui il sogno, il gusto d’Europa, lo slancio delle origini possa tornare a prevalere su una burocratizzazione della realtà che ci ha anestetizzato.