Editoriale. Collegare risparmi e investimenti: l'incrocio necessario al nostro futuro
La storia recente del risparmio degli italiani ha vissuto tre fasi ben distinte. È passata da una stagione di accumulo e di crescita durante il periodo del Covid per i sostegni al reddito e le mancate possibilità di consumo, alla perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione da gas che ha assottigliato i depositi bancari, fino a una terza fase, oggi, dove l’inflazione è rientrata, i tassi scesi riducendo le rate sui mutui a tasso variabile e il risparmio ha ripreso a salire. Il saldo di queste tre stagioni è sorprendentemente positivo. Dal 2018 gli italiani hanno aumentato di poco più di un quarto le somme detenute in termini nominali, ma solo del 7% se si considera l’inflazione.
Le evidenze recenti s’inseriscono in una tradizione di radici più profonde. Ci sono Paesi (come gli Usa) nei quali i consumi sono fondamentali per affermare il proprio status sociale e la spinta al consumo delle istituzioni del mercato è particolarmente forte (le famiglie sono indebitate e si risparmia mediamente solo il 3-4% del reddito). Ce ne sono altri, come l’Italia, dove il risparmio è tradizionalmente una virtù che significa libertà per le famiglie (dal rischio del sovraindebitamento), sicurezza e assicurazione per il futuro (e si risparmia storicamente dal 10 al 15% del reddito). Alcuni studi hanno dimostrato come la maggiore propensione al risparmio sia legata alla memoria della distruzione di beni materiali subita durante le guerre (Germania, Italia e Giappone sono tra i Paesi che hanno risparmiato di più nel Secondo dopoguerra). L’Italia (anche grazie alla quota particolarmente elevata di proprietari di prima casa) resta il Paese europeo con il più alto rapporto tra ricchezza e reddito (8,7 volte il reddito disponibile contro l’8,6 della Francia, il 7,7 del Regno Unito e il 6,8 della Germania). Dietro questi numeri c’è la storia della forza delle nostre relazioni e della cooperazione dentro le nostre famiglie e la saggezza di voler mettere qualcosa da parte per essere più liberi e far fronte alle incertezze del futuro. Il rapporto Acri-Ipsos sottolinea che il 76% delle famiglie è in grado di far fronte a spese non programmate pari a 1.000 euro e solo il 38% sarebbe in grado di fare fronte a spese non programmate di 10.000 euro con risorse proprie. È evidente come dietro un dato medio lusinghiero si nascondano diseguaglianze profonde e una quota di 5,7 milioni di poveri assoluti su cui è essenziale intervenire.
Il rovescio della medaglia, circa la virtù domestica del risparmio, è la preferenza per la liquidità e la scarsa propensione ad investimenti rischiosi: due terzi dei risparmiatori preferiscano la liquidità all’investimento. Sono scelte che dipendono da tanti fattori, primo tra tutti l’aspettativa di dover sostenere spese a breve termine. È un fatto però che da anni ci si domandi come sia possibile far incontrare la ricchezza delle famiglie italiane parcheggiata sui conti correnti con le esigenze di finanziamento del nostro sistema produttivo, in particolare quelle delle piccole e medie imprese che con la loro propensione ad assumere il rischio imprenditoriale, creano valore economico e mandano avanti il Paese.
L’equazione si risolve in parte se tra ricchezza delle famiglie avverse al rischio e Pmi che hanno bisogno di finanziamento si interpongono intermediari finanziari con spalle larghe in grado di creare attività finanziarie che diversifichino e riducano il rischio, assumendosene la gran parte. Anche perché i tempi cambiano e nubi minacciose minacciano la nostra capacità di risparmio. Sempre nell’indagine Acri-Ipsos, la generazione zeta (i nati dopo il 1997) sottolinea quello che è sotto gli occhi di tutti: un mercato del lavoro che offre ai giovani salari e percorsi di carriera dove le possibilità di risparmio sono mortificate o restano una pia illusione. E non è un caso che questo spinga molti di loro a cercare fortuna all’estero.
Un ultimo dato del rapporto, che parrebbe a prima vista slegato da quanto considerato sopra ma in realtà non lo è, sottolinea come nell’ultimo anno la fiducia nell’Unione Europea, ai massimi al tempo della pandemia, sia in significativo calo. La ragione è molto semplice. Abbiamo sperimentato un’Europa che ha saputo fare un passo in avanti nel sostenere investimenti finanziati anche con debito comune nell’emergenza della pandemia, stiamo vivendo invece ora la restaurazione di un’Europa dove prevale la priorità della riduzione del deficit e del rientro dal debito. La soluzione per rilanciare sul fronte degli investimenti ci sarebbe, ed è quella di sfruttare la forza dell’unione per finanziare investimenti produttivi con debito comune con qualcosa di simile al Pnrr anche per i prossimi anni. «L’Europa non si coordina laddove ce ne sarebbe veramente bisogno», ci ha ricordato Mario Draghi in uno dei passi più significativi del suo Rapporto. E il governatore della Banca d’Italia Panetta ha ammonito che rischiamo già di tornare in situazione di deflazione (ultimo dato sull’inflazione italiana 0,9%) se innovazione, crescita e politiche fiscali espansive non faranno la loro parte. È sempre l’intelligenza relazionale e la cooperazione che ci rende più forti perché mettendo assieme le risorse possiamo fare di più di quello che avremmo fatto separatamente. Quell’intelligenza che portò le 13 ex colonie inglesi dopo la Guerra d’indipendenza a creare debito comune facendo nascere gli Stati Uniti e il nucleo di Paesi fondatori dell’UE a mettere assieme carbone e acciaio su cui avevano combattuto guerre sanguinose per anni.
Dalle politiche d’investimento dell’Unione e dalla capacità nel nostro Paese di collegare risparmi degli italiani ed esigenze d’investimento delle imprese dipenderà il futuro del nostro risparmio. E la capacità di combattere povertà ed esclusione.