Adesso finalmente il decreto c’è. Con i suoi 60 fittissimi articoli, non tutti ancora ben definiti nei dettagli, ma comunque sufficientemente chiari negli obiettivi che perseguono. Resta la domanda cruciale: ci sarà anche lo sviluppo che essi promettono? I primi commenti di operatori e categorie interessate sembrano confortanti. Anche i mercati hanno accolto bene le novità, magari più per il contemporaneo impegno di Mario Draghi a favore delle banche europee che per una esatta percezione di quanto è uscito da Palazzo Chigi. Ma quanto meno non hanno dato segnali di insoddisfazione. Ed è già tanto: se ne può ricavare, ci auguriamo, l’implicita premessa che non stiamo andando incontro a un’altra estate "horribilis" come quella del 2011.Ci vuole ancora cautela, è ovvio. Si dovrà attendere la stesura finale di un complesso normativo «molto robusto», per usare le parole di Mario Monti. Si dovrà soprattutto verificare, come per altri provvedimenti chiave varati dall’esecutivo e ancora in corso di approvazione, il grado di compattezza della maggioranza nel sostenerlo. Ma anche la rapidità nell’esame parlamentare dei testi, che dovrà ovviamente essere accurato e scrupoloso, pronto se necessario a correggere imperfezioni e a colmare lacune, senza però dar luogo a estenuanti meline che potrebbero, esse sì, innescare nuove percezioni negative sulla capacità del nostro Paese di uscire finalmente dal pantano della recessione: e allora il rischio di una riedizione dell’"estate delle tre manovre" si farebbe davvero incombente. Valga in proposito l’esplicito richiamo alla riforma del lavoro, pronunciato ieri da un commissario europeo severo ma non prevenuto verso l’Italia come Olli Rehn, che ha di nuovo esortato a portare al traguardo finale sia quella che «tutte le misure prese finora dal governo».In attesa di verificare l’impatto reale che le scelte dell’esecutivo avranno sulla voglia di "ripartire" del sistema produttivo, va tuttavia sottolineato fin d’ora un loro merito tutt’altro che secondario. Sul versante dei tagli alla spesa e della riorganizzazione della macchina pubblica produttrice di costi (la cosiddetta
spending review), appare convincente lo sforzo di dare il via a un nuovo corso, di voltare pagina in modo strutturale: si punta, con decisione e senza indugi, a impedire che in futuro si producano nuovi meccanismi generatori di uscite incontrollabili. Si prova anche seriamente a disboscare la giungla dei cosiddetti "centri di spesa" e ad accrescere le soglie di visibilità sul denaro che viene impegnato a carico dell’erario. Sono impegni sacrosanti, che non si limitano a tappare buchi in forma provvisoria, ma mirano a inaridire le scaturigini più riposte, e di solito mai aggredite, del deficit pubblico.Lo stesso si può dire per lo sforzo di ridurre drasticamente la "popolazione ministeriale", cominciando da quella Presidenza del Consiglio che abbiamo visto negli ultimi anni lievitare a dismisura, sia nei ruoli di vertice che nei ranghi del personale ordinario. Sarebbe fantastico se non solo gli altri dicasteri, come auspicato espressamente dal premier-ministro economico, ma tutte le altre amministrazioni, centrali e periferiche, provvedessero a ridurre, sia pure con la necessaria gradualità e garantendo i giusti servizi da erogare ai cittadini, le loro dotazioni di organico.E infine, ma non per ordine d’importanza, va segnalato il corposo capitolo delle dismissioni, con le quali il governo si ripromette di dare un colpo decisivo al debito. La rinuncia dello Stato a gestire in proprio settori e funzioni, oltre che a liberarsi di strutture inutilizzate e generatrici di ulteriori sprechi, se declinata con la necessaria trasparenza e le opportune possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica, va nella direzione di una sussidiarietà positiva e rappresenta l’unica vera alternativa alla tassazione per aggredire il disavanzo storico. Sono probabilmente queste le scelte con le quali la squadra dei tecnici punta a rilanciarsi, a fronte di uno scenario ancora dominato dalle ombre minacciose degli spread e dallo scetticismo di qualche partner europeo. C’è da augurarsi, nel loro e nel nostro interesse, che ce la facciano.