Opinioni

Il male da estirpare. Rischioso introdurre il reato di «negazionismo»

Carlo Cardia venerdì 18 ottobre 2013

II ricordo della Shoah, delle infinite persecuzioni degli ebrei, che rinnoviamo in questi giorni anche per il segmento della storia italiana che ne è stata macchiata, ripropone il problema di cosa fare perché il male assoluto non si ripresenti più, ne siano estirpate le cause. L’esigenza deriva dal fatto che la Shoah non è stata solo frutto di un regime intrinsecamente malvagio, ma l’apice di una malattia che ha infettato l’Europa sin dall’Ottocento, contagiando la cultura, la politica, alcuni movimenti di massa. L’analisi di Hanna Arendt, nel suo "Le origini del totalitarismo", e la letteratura successiva, ci dicono che nell’opera distruttiva del nazismo, che ha incarnato il male nel "secolo di Caino", hanno trovato convergenza i veleni antisemiti sparsi da decenni in ogni terra d’Europa, favorendo più tardi le terribili complicità di autorità civili e militari nei territori occupati dal nazismo. Una lunga galleria di intellettuali mitteleuropei ha sparso a piene mani i semi del razzismo e dell’antisemitismo, da Jacob F. Fries, che indica la nazione ebraica come nazione straniera a Johann G. Fichte che nega i diritti civili agli ebrei, da Friedrich Schleiermacher che dichiara gli ebrei colpevoli solo d’essere tali a Friedrich Schlegel, teorico della superiorità ariana, a Joseph-Arthur de Gobineau, Houston Stewart Chamberlain, Theodor Fritsch, razzisti espliciti che parlano di soluzioni radicali e anticipano l’oscuro desiderio di sterminio degli ebrei.Questo male a lungo coltivato, ed esploso nella Shoah, spiega perché l’Europa senta ancora il bisogno di intervenire per eliminare le tossine, i germi di malattie come antisemitismo e razzismo, che esistono nel mondo, anche in Medio Oriente dove la negazione della Shoah ha trovato altre sponde e motivazioni, legate a un conflitto che mischia ambiguamente identità ebraica e Stato d’Israele. Questo abisso risorgente spiega il senso di colpa che ha scavato nella memoria tedesca, e trovato eco in una celebre sentenza della Corte costituzionale del 1994 per la quale «il solo fatto storico che esseri umani siano stati individuati secondo i criteri degli "Atti di Norimberga" ed espropriati della loro personalità con l’obiettivo di sterminarli, pone gli ebrei che vivono in Germania in un rapporto particolare con i loro concittadini. È parte della loro personale auto-percezione e dignità l’essere considerati come appartenenti a un gruppo di persone distinte per il loro destino. Chiunque cerchi di negare (l’Olocausto) nega a ciascuno di loro il valore personale di cui ha diritto».Dovremmo sentire tutti questa consapevolezza, per le colpe specifiche commesse dai singoli Paesi negli anni dello sterminio, da quelle della Francia di Vichy a quelle del fascismo italiano con le leggi razziali del 1938 e durante la Republica di Salò, e perché lo studio ha fatto crescere la conoscenza delle ferite inferte all’umanità intera. Essa ha spinto a conoscere altri genocidi, precedenti e successivi al conflitto mondiale, quello degli armeni a opera della Turchia, lo sterminio di milioni di persone nei gulag staliniani, gli eccidi cambogiani di Pol Pot... Nasce in questo quadro la proposta, già approvata in alcuni Paesi europei, di introdurre il reato di negazionismo come ultima barriera verso chi voglia sminuire, celare, l’olocausto inserendolo nella tragica dialettica delle vicende umane. Essa è approdata al Parlamento italiano con una formula ampia che punisce chi nega l’esistenza di crimini di guerra o di genocidio o contro l’umanità. La scelta esprime dunque la volontà di strappare dal cuore umano anche l’ultima radice dell’odio verso gli altri, prevenire ogni deriva che legittimi, giustifichi, i crimini compiuti, o che possono ancora compiersi, contro i deboli della storia, gli inermi, gli innocenti.Tutto risolto, dunque, con il reato di negazionismo? Credo di no, forse è necessario prestare attenzione ai dubbi più volte manifestati, ai limiti che questa scelta può presentare. I dubbi comprendono il rischio che i negazionisti si atteggino a difensori della libertà d’espressione, e la possibilità che sia chiesto ai giudici di decidere con testi storici alla mano quali siano genocidi e stermini, e quali no, ed essi lo facciano con strumenti giuridici che nulla hanno a che vedere con la ricerca e il dibattito. La realtà storica è più drammatica e complessa di una "verità di Stato" decisa in aula giudiziaria, perché richiede cura, impegno intellettuale, libertà di espressione, e perché, stabilita la verità giudiziaria su alcuni crimini, altri ne risulterebbero offuscasti, votati al silenzio.Guai, poi, ad illuderci che col nuovo reato, si sarebbe posta una pietra definitiva sull’antisemitismo e sull’odio razziale. Guai a sentirci sollevati perché così avremmo fatto il nostro dovere. Nel recente testo "Il diritto di avere diritti" un giurista come Stefano Rodotà, non certo sospettabile di indulgenza verso il nazismo, parla di un «diritto alla verità storica», alla cui base è la libertà di ricerca, e nel 2007 ha definito la misura penalistica inefficace e pericolosa; ha avvertito che il recinto dell’intervento penale è troppo stretto rispetto a quanto si deve fare per eliminare le pulsioni razziste. Non è la sola voce a essersi levata. L’estirpazione del male dalla coscienza dell’uomo, passa per un’opera ampia, che affonda le radici nella formazione dei giovani e nella scuola, purtroppo oggi abbandonata a sé stessa, quasi priva di un orizzonte etico necessario a ogni progetto educativo.

Il diritto penale ha, del resto, un suo ruolo, già definito, con i reati di istigazione a comportamenti razzisti, antisemiti, di odio verso gli altri. Oltre il confine penale, la società deve fare molto di più promuovendo conoscenza, dibattito e riflessione, per coltivare la memoria e attrezzarci a capire e discernere il male che siamo capaci di fare in nome di ideologie, razzismi d’ogni genere, interessi egoistici: altrimenti, il reato di negazionismo sarebbe un seme povero, forse sterile.