Opinioni

Sahel. Rischiosa giravolta in Mali tra politica jihadismo

Mario Giro giovedì 18 giugno 2020

Caro direttore,
l’uccisione di Droukdel, capo storico di al-Qaeda del Maghreb islamico (Aqmi), non può nascondere che la guerra al terrorismo sta per subire un ribaltamento in Africa. Il presidente Ibrahim Boubakar Keita (per tutti Ibk) del Mali ha annunciato che il suo governo cerca di intavolare il dialogo con uno dei movimenti jihadisti contro cui il Paese è in guerra dal 2011. Si tratta di un rovesciamento rispetto alla politica fin qui seguita. Nel 2013 quando i jihadisti stavano per sfondare al centro del Paese, l’intervento francese voluto dall’allora presidente Hollande (assieme alle truppe del Ciad) respinse l’avanzata e liberando anche le città occupate del nord: Gao, Timbuctu e Kidal. Molto si è scritto su quegli eventi e sono stati girati anche film di successo sull’occupazione islamista di Timbuctu dove sono conservate memorie antiche dell’islam tradizionale, inviso agli estremisti.

Le immagini della distruzione di biblioteche, santuari confraternali e tombe di santi islamici fecero il giro del mondo, assieme ai racconti dei maltrattamenti subiti dalla popolazione locale. Ma oggi una constatazione è d’obbligo: dopo anni di operazioni militari e molte truppe coinvolte, la situazione del Mali non è migliorata ma si è insabbiata con la saldatura sempre più forte tra strategie jihadiste e rivendicazioni delle etnie locali (dei tuareg prima e dei peul-fulani poi).

Dopo una serie di ricomposizioni, i jihadisti sono ora riorganizzati nel Gsim (Gruppo per il sostegno dell’islam e dei musulmani) guidato dal capo tuareg di stirpe nobile Iyad Ag Ghali, che ha assorbito gli altri spezzoni radicali tra cui i peul-fulani di Amadou Koufa e la stessa Aqmi. È proprio con costoro che il governo vuole dialogare. Forse il prudentissimo Droukdel si era esposto perché contrario a tale prospettiva. Tutto il Sahel è contaminato dall’endemica presenza jihadista, intimamente legata agli eventi di Libia, Burkina Faso, Mauritania e Niger. Lo stesso Gsim ha interesse a negoziare per liberarsi dalla concorrenza dell’Iswap, lo Stato islamico dell’Africa Occidentale, che opera prevalentemente nella zona delle 'tre frontiere' (Mali, Niger, Burkina Faso). Tra i due gruppi c’è astio assoluto: i jihadisti dello Stato islamico giudicano anatema la commistione con le rivendicazioni locali e puntano alla purezza araba dell’islam.

Un clima di paura, insicurezza e sfiducia ha preso il posto dell’euforia post-operazioni del 2013. Malgrado i molteplici adattamenti di strategia militare adottati dalle truppe francesi, di gran lunga le più performanti, poco si è visto dal lato degli altri alleati africani e occidentali. In Mali sono stanziati anche soldati americani e tedeschi, oltre che ciadiani e truppe del G5-Sahel, l’alleanza militare tra i Paesi dell’area. Gli italiani sono in Niger. Più passa il tempo e più un avversario sfuggente e onnipresente sembra non poter essere definitivamente sconfitto. I jihadisti pagano un alto prezzo sul terreno, ma non cercano la vittoria militare: mirano solo a impantanare le truppe regolari e a inserirsi stabilmente nelle intricate e antiche dispute del Paese. In questo modo tutto - accesso alla terra e contenziosi tra agricoltori e pastori, transumanza e controllo dei punti d’acqua, matrimoni e alleanze tra clan ecc. - è caduto ostaggio dell’inafferrabile guerriglia del deserto.

Chi in Occidente non è particolarmente entusiasta della giravolta del Mali non può che scommettere sul fallimento del tentativo. Per ora la pressione della piazza di Bamako è forte e il sentimento anti- occidentale crescente: gli ulema (rigoristi) dell’islam ufficiale sono favorevoli al negoziato, pensando di manipolarlo a proprio vantaggio. Ma nulla è sicuro nelle sabbie mobili maliane: cosa potrà offrire il governo a gruppi che invocano la sharia nella sua forma più rigida?

Ciò su cui potrebbero puntare i mediatori di Ibk è che sotto la vernice della sharia si smascherino le vecchie (e mai soddisfatte) rimostranze etniche locali. Ghali stesso è personalità complessa: per lui e una parte dei suoi forse il jihad è stato il modo per rinverdire antiche lotte utilizzando un nuovo prodotto insurrezionale, facile da usare come arma di propaganda in quel contesto culturale. Per questo urge una strategia politica europea, un pensiero e un’analisi che non ci faccia perdere completamente l’influenza e una relazione positiva con l’intera area.

già viceministro agli Esteri