Passare dalle parole ai fatti». È questa la sfida – ispirata da un alternarsi e intrecciarsi di incredulità e speranza verso le mirabolanti promesse del premier – che tutti rivolgono al nuovo governo. Tradurre in fatti le promesse. Indicare non solo gli obiettivi ma la strada per raggiungerli. Trovare i fondi per passare dai titoli alle riforme vere.Le parole "riforma della giustizia", molto sbandierate in troppi programmi, sono generiche e possono celare intendimenti anche molto diversi. Non sappiamo, perché non ci è stato detto, se il governo appena varato ha un’idea precisa e articolata di una «riforma organica» della giustizia. Una riforma non improvvisata va pensata, discussa nelle sue linee essenziali e nelle sue traduzioni pratiche. Deve essere sorretta da un respiro profondo e da una riflessione culturale a più voci. Ce l’insegna la storia delle grandi riforme di struttura che furono varate nella più felice stagione che l’Italia abbia conosciuto: il centro-sinistra dei primi anni 60. Ma anche le riforme organiche possono essere anticipate da interventi minori, in linea con l’obiettivo generale che ci si è dati, e capaci di dare una prima concretezza alla marcia verso quell’obiettivo.E allora, sia consentito a questo giornale richiamare una proposta che avanzammo nel 2012, a pochi mesi dal varo del governo Monti, e che definimmo «una riforma a costo zero». Si tratta della possibilità – da anni già sperimentata con successo nel processo minorile e in quello del giudice di pace – di archiviare la notizia di reato nei casi di «particolare tenuità del fatto», desumibile dalla «esiguità delle conseguenze dannose o pericolose» della condotta.Ciò avverrebbe, su proposta del pubblico ministero, ad opera del giudice, che in concreto, caso per caso, dovrebbe valutare la sostanziale irrilevanza del danno. La prima proposta in questo senso fu formulata dal guardasigilli Gian Maria Flick ai tempi del primo governo Prodi (1996) ma purtroppo fu accantonata in vista di una riforma costituzionale più vasta (quella della Bicamerale, poi fallita). Da allora, la proposta è riemersa, in modo carsico, nel corso di varie legislature e anche oggi giace in Parlamento. Ma ancora attende d’essere realizzata. Eppure questa riforma – concretizzabile con l’inserimento di un semplice articolo nel nostro codice di procedura penale – sarebbe non solo, come dicevamo, «a costo zero» ma produrrebbe grandi risparmi: riducendo drasticamente quell’enorme arretrato che rallenta tutta la macchina della giustizia e affida spesso le sorti del fascicolo all’indiscriminato decorso del tempo, suscitando le giuste critiche che a livello europeo ci vengono rivolte (con pesanti richieste di risarcimento). Ecco, dunque, che la domanda oggi rivolta al governo – dove trovate i fondi? – potrebbe essere ribaltata con la sicura affermazione: "In questo modo, creiamo nuovi fondi, da destinare ad altro". Ma c’è un altro vantaggio: affidare al giudice la decisione di accogliere la richiesta di non procedere del pubblico ministero eviterebbe il rischio – presente in altri ordinamenti – di archiviazioni arbitrarie. E avrebbe il pregio di formalizzare e dare piena legittimazione alla discrezionalità di fatto che già oggi il pubblico ministero è costretto a esercitare con alcune inevitabili scelte di priorità, dando invece trasparenza a queste scelte, rendendole così "leggibili" e criticabili dall’esterno. E ancora: la riforma non contrasta con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale previsto nell’art. 112 della Costituzione. Perché la Corte costituzionale, con una sentenza del 2003, ha escluso questo rilievo con riferimento all’identico meccanismo "deflattivo" già previsto nel processo penale minorile. Non si corre, dunque, il rischio di impigliarsi in una discussione "ideologica" che, inevitabilmente, una modifica dell’articolo 112 innescherebbe.Insomma, sarebbe una piccola e facile riforma, che darebbe grandi frutti. E, soprattutto, preparerebbe il terreno a un intervento complessivo, ma non improvvisato, di cui la nostra Giustizia ha bisogno.