La prova della malattia. Ricostruire insieme e oltre la «fraternità mancata»
«La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza»: questo testo di Fratelli tutti (n. 103) può essere letto in singolare continuità con un concetto analogo espresso da Henri Bergson nel suo ultimo capolavoro, Le due fonti della morale della religione (1932), dove il filosofo ebreo, ormai vicino al cristianesimo, riconosce che la democrazia, nella sua essenza intimamente evangelica, «proclama la libertà, richiede l’uguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro di essere sorelle, mettendo al di sopra di tutto la fraternità».
Nella modernità il dibattito pubblico, anche a causa delle ideologie politiche che lo hanno banalizzato ed estremizzato, si è spaccato proprio contrapponendo libertà e uguaglianza, e misconoscendo la radice fraterna del 'noi'. C’è dunque una sorta di 'fraternità mancata' nel delicato punto di intersezione tra sfera privata e sfera pubblica, all’origine del conflitto tra libertà e uguaglianza per il quale sono stati versati letteralmente fiumi di sangue. Da un lato, la bandiera della libertà è stata sventolata soprattutto a destra, come vessillo di un individualismo che a livello economico-sociale ha sempre guardato con sospetto allo Stato che entra nella sfera privata, imponendo vincoli, restrizioni, sacrifici in favore della collettività. Da un altro lato, soprattutto a sinistra, si è anteposta alla libertà la giustizia sociale, come condizione indispensabile di vera uguaglianza, in assenza della quale la libertà diventa semplicemente la tutela dei garantiti e una presa in giro per i disperati.
La vicenda drammatica della pandemia da coronavirus da un lato ci ricorda una condizione di fragilità globale, da anni sciaguratamente rimossa, dall’altro riapre in forme nuove un conflitto irrisolto tra libertà e uguaglianza che rischia di destabilizzare lo spazio pubblico. Per un verso, infatti, la fragilità, come condizione che appartiene alla nostra finitezza, non solo non potrà mai essere tenuta compiutamente sotto controllo, ma può arrivare persino insidiare a livello globale la vita umana sulla terra, facendo esplodere nello stesso tempo, per altro verso, contraddizioni profonde che smascherano il mito dell’autonomia invulnerabile dell’individuo.
Oltre la polmonite, ci sono altre patologie interstiziali, di ordine sociale, culturale e spirituale, dalle quali eravamo da tempo diversamente contagiati. La radice sembra essere un individualismo possessivo, che sembra aver subìto esso stesso una mutazione genetica: a partire dal riconoscimento della irriducibilità del soggetto rispetto a ogni formazione sociale, ha progressivamente trasformato l’indifferenza in aggressività, alimentando un tribalismo ossessivamente dedito a erigere barriere intorno a un perimetro dell’io sempre più dilatato, fino a provocare una vera e propria cannibalizzazione dello spazio pubblico. In tale contesto, mentre il 'sovranismo dell’ego' s’illudeva di aver fatto saltare tutti i ponti del 'noi', il virus ci ha ricordato per via negativa che non è possibile separare fragilità individuale e fragilità globale.
La riprova è nel drammatico conflitto sociale che oggi si manifesta dinanzi a una tragic choice, imposta dalla pandemia: morire di fame o morire di Covid? Allentare i provvedimenti di distanziamento e sicurezza sociale per non strozzare il tessuto produttivo, lasciando sul lastrico migliaia di persone, oppure imporre sacrifici severi in cambio di una protezione sanitaria che potrebbero salvare altrettante migliaia di persone? La sfida è aggravata dal fattore ideologico del populismo, che combatte i privilegi delle élite, fiuta un imbroglio dietro il richiamo alle competenze e l’appello alla solidarietà, mette un carburante negazionista nella pancia di quella parte del Paese che non intende cedere allo Stato quote più o meno piccole di autonomia individuale, finendo per cavalcare le forme più ottuse di dietrologia.
In realtà, se avessimo in comune solo la potenza, saremmo tutti non più forti, ma più divisi, più aggressivi, più inclini a ferirci; riconoscere al contrario che siamo accomunati - anzi, affratellati - dalla fragilità, può aiutarci a riconoscere in una fraternità misericordiosa l’unico orizzonte entro cui riconciliarci, articolando correttamente lo spazio dell’io e quello del 'noi', e quindi facendo prevalere, nel rapporto tra libertà e uguaglianza, l’essere sorelle sull’essere nemiche. Solo una fraternità capace di riconoscere il primato della misericordia, oltre lo scandalo della miseria, può aiutarci a tessere nuovi spazi di partecipazione, riaprendo una domanda ormai esiliata dallo spazio pubblico: che cosa c’è in comune tra noi? In questo contesto di individualismo ferito, il cristiano è chiamato quindi ad allungare lo sguardo, non ad accorciarlo, magari rifugiandosi in forme di spiritualismo evasivo e indolore, che indeboliscono il valore della fraternità e accorciano gli orizzonti della misericordia. Allungare infinitamente lo sguardo significa tornare a contemplare il mistero trinitario, in cui l’amore è «il legame che conta», legame vivo tra le persone del Padre e del Figlio, fino ad essere Persona egli stesso! Forse anche la misericordia potrebbe essere pensata come la forma trinitaria di un amore capace di riconciliare e quindi salvare il legame tra l’io e il 'noi', anche e soprattutto quando tale legame appare ferito a morte e solo apparentemente perduto.